SELMA (la recensione): Biografia opaca di un eroe moderno

I membri della tribù dei bianchi per molti secoli si erano autoproclamati padroni del mondo a discapito di minoranze contraddistinte da una pigmentazione della pelle differente, più scura nello specifico. Questa tribù guidata in alternanza da re, regine e presidenti eletti democraticamente aveva perpetrato soprusi e  violenze nei confronti delle comunità afro, negando loro quegli stessi diritti di uguaglianza sociale e misericordia che altisonanti risuonavano dagli altoparlanti delle parrocchie, dalle voci solenni dei pastori.

SELMA

E’ il 1964 quando Martin Luther King (interpretato da David Oyelowo ) riceve il premio Nobel per la pace. Sono anni difficili per gli Stati Uniti. Le comunità afro rivendicano il diritto di voto, ma puntualmente i colletti bianchi americani rifiutano le richieste di registrazione.

King, sempre aperto al dialogo, incontra il presidente Lyndon B. Johnson e lo invita a considerare la possibilità di estendere il diritto di voto anche agli afro-americani. Tuttavia, sia il presidente che il governatore dell’Alabama George Wallace rispondono in politichese, imbarazzati dalle parole forti e decise di King e dal suo sguardo penetrante.

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Un giovane ragazzo di colore viene ucciso ad opera della polizia, King si fa avanti e condanna le intenzioni dello stato americano, pronto a sopprimere con la violenza quegli stessi diritti che dice di voler difendere in Vietnam, il paradosso più totale.

Nella cittadina di Selma, gli attivisti guidati da Martin Luther King, organizzano una marcia fino alla città di Montgomery. Lungo il tragitto, le forze armate marchiate dall’ ideologia dell’estrema destra, come animali da soma privi di spirito critico, impugneranno mazze chiodate, fruste e manganelli e si scaglieranno violentemente contro il corteo pacifico. La situazione diverrà talmente insostenibile da obbligare il presidente Johnson ad accettare le richieste delle comunità afro.

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Con Selma continua il trend delle trasposizioni cinematografiche delle vite dei grandi personaggi che hanno segnato la storia moderna: Alan Turing in Imitation Game,  Chris Kyle in American Sniper,  Louis Zamperini in Unbroken, lo stesso Turner.

Anche questa volta, l’importanza delle storie narrate non è equivalentemente supportata. Selma, diretto dalla regista Ava DuVernay, è un film come altri che racconta banalmente la storia di uomini straordinari. Farsi scudo delle vite degli eroi moderni, per celare mancanze in termini di inventiva  è diventato, ormai, l’hobby preferito di Hollywood.

La ricetta è la seguente: prendete 3-4 attori dalle abilità attoriali discrete con una fama pregressa sufficiente, vestiteli a tema, addestrateli a pronunciare discorsi toccanti, aggiungete un pizzico di scene violenza (q.b) preferibilmente nei confronti delle minoranze più esposte della società e il successo sarà garantito.

Infatti, Selma è candidato alla vittoria del titolo di miglior film ai prossimi premi Oscar.

L’importanza di opere come questa è indiscussa. Ricordano a tutte le generazioni gli sbagli commessi dall’umanità nel passato recente, con l’obiettivo di evitare che si ripetano.

Si sarebbe potuto osare di più sulla fotografia, d’altronde i vestiti, i colori e lo stile di vita delle comunità afro offrono l’hummus adatto per ogni genere di esperimento. Manca l’originalità, manca il pathos (tranne nella scena in cui la polizia annienta gli attivisti).

A questo punto l’uscita di un colossal su Madre Teresa di Calcutta o su Gandhi appare scontata. Noi cinefili pretenziosi attendiamo, invece, la celebrazione di vere opere d’arte come quelle realizzate dal giovane Xavier Dolan o dal visionario Wes Anderson.

A cura di Salvatore Giannavola

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