Diorama | Intervista Indie Italia Mag

L’assenza di confini tra suoni e colori, tra musica e parole. Questo è Diorama, nome d’arte di Matteo Franco, ventiduenne originario della Puglia trapiantato a Milano.

Diorama è abbattere le barriere tra le emozioni di chi scrive e le emozioni di chi ascolta. È il progetto artistico di un ragazzo che ha sempre riposto nella musica il suo sogno più grande e che, giorno dopo giorno, riscopre quanto quest’ultima lo aiuti non solo a esprimersi, ma anche a conoscersi.

Con un background che spazia dal britpop alla nuova psichedelia, che influenza la sua musica anche sul piano estetico e visivo, Diorama utilizza un linguaggio in continua e inevitabile espansione.

L’8 aprile è uscito il suo ultimo singolo, Scappati di casa.

INTERVISTANDO DIORAMA

Ciao Matteo. Allora, come hai scelto il tuo nome d’arte, Diorama?

Sono sempre stato affascinato dalla capacità dell’arte di esprimere ciò che le parole non rendono: il diorama è un plastico, una rappresentazione tangibile, in scala ridotta, della realtà. Allo stesso modo ogni mia canzone è una rappresentazione, seppur parziale, di tutto quello che ho vissuto, che vivo e che vorrei vivere.

Raccontaci qualcosa in più di te. Come ti sei avvicinato al mondo della musica?

La musica è sempre stata parte integrante di quello che sono. Ancor prima di innamorarmi delle audiocassette di “Breakfast in America” dei Supertramp e del “Black Album” dei Metallica che i miei genitori tenevano in auto, mi sono innamorato degli elementi minimi della musica: sin da bambino ero affascinato dal ritmo, portavo il tempo su qualunque cosa mi capitasse sotto mano, il mondo era la mia batteria, puoi immaginare l’entusiasmo la prima volta che mi sono seduto ad una batteria vera.

Ti sei trasferito dalla Puglia a Milano, una delle città dove negli ultimi anni la scena indie si è maggiormente sviluppata. Come ti trovi, musicalmente parlando, in questa città?

Ho già avuto occasione di interagire e suonare con tanti bravissimi musicisti qui, ho imparato di più in questi tre anni nelle salette prova dell’Hinterland milanese che in sette anni di conservatorio. Ma la scena indie per me, è ancora tutta da scoprire.

Sicuramente il prossimo anno sarà il più denso di tutta la mia vita, musicalmente parlando. Migliorare come musicista per me significa migliorare come persona, non vedo l’ora di scoprire cosa hanno da insegnarmi i palchi di Milano.

Quali sono i tuoi riferimenti musicali?

Ascolto molti generi differenti, da John Mayer al rock anni ‘70, dal post-hardcore a Ed Sheeran. Quando meno me l’aspetto potrei ascoltare qualcosa e dire “oggi voglio scrivere un pezzo come questo” e questo mi è successo tanto con i Dream Theater quanto con i Tame Impala, con i Police, Alex Britti.

Dal momento in cui ho deciso di fare il musicista mi sono ripromesso di non pormi alcuna limitazione di genere in termini di ciò che ascolto; questo ovviamente si riflette sulla musica che scrivo, vedrete.

L’8 aprile è uscito Scappati di casa. È un brano intenso, molto riflessivo. Com’è nato?

Scappati di Casa è il modo in cui percepisco l’amore alla mia età. Scappare di casa è fare il passo più lungo della gamba, prendersi responsabilità più grandi di noi, fare promesse che non sapremo mantenere. Tutto questo nel nome di un sentimento che ci fa tornare bambini, che fa passare in secondo piano tutto ciò che è pratico e razionale, che ci rende sognatori.

Alcuni ci hanno letto un filo d’ironia e disillusione, altri hanno “creduto” alle parole sognanti del testo. Ora che il pezzo è fuori appartiene a tutti e pertanto ogni interpretazione è l’interpretazione giusta.

Il video di Scappati di casa è davvero molto interessante, complimenti. Da dove nasce l’idea di questo lavoro?

Grazie! Con Giovanni Sorrentino e Alessia Ferrario abbiamo lavorato molto sulle luci, sulla fotografia e ovviamente su tutto il contenuto simbolico del video. Una volta ascoltato il pezzo erano d’accordo con me che il fil rouge che unisce il video e la canzone sarebbe stata un estetica simbolista, un approccio “infantile” allo storytelling.

Insomma, una cosa a la Wes Anderson. Il mio senso estetico è strettamente legato al colore e con questo video abbiamo esteso molto la nostra palette cromatica.

Curi molto non solo l’aspetto musicale, ma anche l’aspetto estetico di quello che fai. Quant’è importante, per te, che una canzone sia accompagnata da un buon prodotto visivo?

Come dicevo prima, avere a disposizione una palette visiva ampia è tanto importante quanto lo è avere a disposizione molti strumenti musicali per arrangiare i propri pezzi; non si tratta di ciò che l’artista vuole usare, ma di ciò che l’opera d’arte richiede.

In un mondo pieno di impulsi come quello odierno l’ascoltatore medio ha una soglia dell’attenzione molto bassa: maggiore è la quantità di input che gli si offrono, migliore è la possibilità che, alla fine dei tre minuti che servono per ascoltare il pezzo, rimanga qualcosa del messaggio che si vuole comunicare.

Tutto quello che conta è esprimersi! Se un giorno scrivo un pezzo che secondo me merita un cortometraggio, potete star certi che gireremo un cortometraggio. O una mostra fotografica, uno spettacolo teatrale.

Nel 2018 hai pubblicato il singolo Parlo troppo. Com’è cambiato il tuo modo di scrivere e fare musica da questo brano al tuo ultimo singolo?

Il mio modo di comporre si evolve con ogni canzone che scrivo, ed ogni volta sono il primo ad essere sorpreso. La mia musica rappresenta tutto: tutte le canzoni che ho ascoltato, tutte le canzoni che non ho ascoltato, tutti i libri che ho letto, tutte le cose che non ho capito della vita.

Parlo Troppo è un grande asterisco a fronte di tutto ciò che pubblicherò in seguito, un inno al dubbio di se stessi, un monito per i miei ascoltatori, come a dire “qualunque cosa io dica, sappiate che sono io il mio primo detrattore e non vedo l’ora di contraddirmi”.

Progetti per il futuro?

Fare tanta musica ed essere felice, e fortunatamente le due cose coincidono.

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