Billy Idol

Credi ancora in Billy Idol? | Intervista ai Baruffa

Dopo “Nevrotica Asociale”, “Rovigo” e “Sandro”, tutti singoli pubblicati nel 2019, i Baruffa hanno lasciato sotto l’albero di Natale per i loro fan un nuovo brano, “Billy Idol” con il desiderio di tradurre in musica le esperienze di vita quotidiana vissute direttamente o indirettamente, in chiave pop/rock. Il risultato è un brano dal gusto anni ’80, in cui Billy Idol incarna il lieto fine, quella cosa assurda ed irrealizzabile che però si può ancora vivere, almeno nei ricordi.

Baruffa è il nome del progetto che nasce nell’estate del 2016 da Emanuele Rossi, Enrico Da Rù e Marco Marabese. Il nome deriva dal nome del bar dove i ragazzi abitualmente si incontravano col loro manager, nella fase in cui il progetto prendeva forma, ed è stato scelto per il forte contrasto tra l’idea che la parola suggerisce e l’indole dei componenti della band, tutt’altro che rissosa.

Nel settembre del 2016 il manager Cristian Gallana li presenta al produttore Davide Maggioni. Nel 2017 si piazzano fra i finalisti di Area Sanremo con il singolo “Ti darò un perché”. Nel 2018 firmano per l’etichetta Matilde Dischi e poco tempo dopo il batterista Luca Alibardi entra a far parte del gruppo in pianta stabile.

Intervistando i Baruffa

Come mai avete scelto proprio Billy Idol come icona del passato?

Perché l’idea della canzone è nata dopo aver visto una serie tv in cui il protagonista a un certo punto ascolta “Dancing with my self”. Billy Idol ci è sembrato perfetto per rappresentare la speranza di realizzare l’irrealizzabile, di voler essere qualcosa di completamente staccato dalla realtà e dal contesto in cui si vive. Questa canzone è dedicata a chi vorrebbe continuamente ridare il primo bacio.

 

Tutto è ciclico, lo dite anche voi in “Billy Idol”, soprattutto l’arte e la musica: se poteste scegliere un’epoca musicale da rivivere immediatamente, quale sarebbe e perché?

Chiaramente rivorremmo l’assolutismo regio dell’indimenticabile Luigi XIV, il Re Sole. E non ci spiacerebbe essere invitati a qualche festino a Versailles con una playlist di musica barocca in sottofondo. Travestiti da qualche divinità greco-romana. O sicuramente i primi anni ‘90, tra Kurt Cobain e Max Pezzali.

 

“Tra tutte le idealizzazioni sei l’unica non idealizzata”: non starete parlando ancora della famosa Nevrotica Asociale?

No, parliamo della ragazza che avremmo sempre voluto e che, invece, non ci ha mai cagato.

 

Siamo arrivati alla fine dell’anno ed avete pubblicato ben quattro singoli in 365 giorni: tirando le somme, quali sono i momenti più importanti di questo 2019?

Sicuramente quando Alibardi (Luca, il nostro batterista) ci ha preparato l’arrabbiata nella cucina da lui costruita.

Scherzi a parte, è stato un bel 2019, in cui abbiamo visto concretizzarsi un minimo il nostro lavoro. Le persone hanno cominciato a cantare le canzoni ai nostri concerti, a scriverci delle belle parole nei social. Questo ci ha permesso di guardare al futuro con maggiore fiducia.

 

L’ultimo anno ha consacrato definitivamente il trionfo del “singolo” sulla band, almeno nel cosiddetto mainstream in Italia: a che band vi ispirate, sia nostrane che internazionali?

Ci vengono in mente band come i Baustelle e i Subsonica, che resistono alle intemperie del tempo che passa. 

 

Ricordo che l’ultima volta che abbiamo parlato avete confessato che la trap proprio non la mandate giù: siete ancora della stessa opinione oppure è riuscita a far breccia?

Un amico sostiene che gli artisti della scena trap siano gli unici ora ad incarnare davvero quello che era lo spirito rock. Non ci conquista perché probabilmente non è rivolto a noi. Forse se fossimo adolescenti in questo momento lo ascolteremmo.

 

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