DAG: Disturbo d’Ansia Generalizzato | Indie Tales
“Chissà quanto durerà” sospira poggiando il bicchiere vuoto sul bancone.
“Parla con me?” Rispondo incerto.
“Eh? No, no. Cioè, sì. Secondo lei quanto durerà questo inferno?”
“Non so davvero, spero il meno possibile”.
Ormai non c’è conversazione in cui non esca fuori l’argomento. Con un conoscente incontrato per caso, con un amico di vecchia data, a cena con il proprio compagno (a casa, ovviamente).
Da quando hanno messo il coprifuoco a Roma, la mia città, nell’ultima ora di libertà mi piace passeggiare per le strade semi-vuote.
Di solito vedo gente che torna a casa a passo svelto o persone che portano fuori i cani. Io invece cammino solo come un cane, lento e scaldato dal fumo di una sigaretta, forse l’oggetto con cui siamo più in intimità oggi.
Comunque vada, spero di non scordarmi com’è fatta la libertà. Spero di avere sempre la forza di cercarla anche quando non si vede, o di essere abbastanza lucido da ricordarmi almeno che forma avesse.
La cosa che mi dispiace di più è che ognuno è preso dal proprio dispiacere, dalla propria salute e dai propri congiunti. Sarebbe bello se tutto questo schifo ci spingesse invece verso una nuova idea di collettività, di bene comune.
È come se ci stessimo sempre più rendendo conto che, visto che nasciamo e moriamo soli, tanto vale vivere anche soli, senza neanche tentare di goderci quei pochi momenti di compagnia, seppur distanziati.
Dal canto mio, ho scelto di non cambiare troppo le mie abitudini. Non ho approfittato del cambiamento sociale per attuarne uno personale.
Se i baristi non possono vedermi dopo le 18, allora mi vedranno nel primo pomeriggio o addirittura la mattina, quando mi sveglio Charles Bukowski.
Quella sana voglia di farmi del male mi ha portato qui infatti, al bancone di un bar, a mezzogiorno, a parlare con un perfetto sconosciuto.
“Quanti anni hai?” mi chiede mentre fa il gesto al barista di portargli un altro non-so-cosa.
“Ventisei”
“Mi dispiace. Dev’essere brutto perdersi un anno così importante. Io ne ho 64 e sinceramente non mi cambia molto se vado a letto un’ora prima o se non posso viaggiare.”
Cavolo, ha ragione. Questo 2020 mi sta scivolando dalle mani senza che nemmeno me ne accorga. La città sta morendo, e con lei anche la mia età. Chi me lo ridarà il mio ventiseiesimo anno?
Esco dal bar un po’ sconfitto e cammino con la mente in preda ai pensieri, solo e con la mia sigaretta tra le dita. Comincio a pensare a cosa di buono potrei fare nei prossimi mesi per essere fiero di me stesso e per avere l’idea di non essermi perso parte della mia giovinezza. Quando penso di aver esagerato con i gin tonic, sento una canzone di Nada in lontananza e mentre cerco di ricordarmi il titolo mi avvicino incuriosito. È un vecchio negozio di dischi e dentro scorgo una coppia di vecchietti che ballano stretti stretti. Quell’immagine mi scalda e mi fa dimenticare per qualche secondo i discorsi fatti con quel signore al bar e il brutto periodo che stiamo vivendo.
Mi incammino verso casa con in testa una lista di buoni propositi per questi mesi bui. Tutte cose fattibili, come tagliarmi i capelli ed assumere un comportamento più sano sui social.
Racconto liberamente ispirato al brano “DAG” di Angelo Iannelli