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I posti del cuore di Bonetti | Indie Talks

Qui è uscito. Forse è uscito nel momento più balordo, ed è un’ironia del destino, perché quando ho iniziato a lavorarci il mio obiettivo era un disco che provasse, almeno nelle intenzioni, a portare l’ascoltatore in un posto distante, il qui, quel posto in cui essere presenti a se stessi, lontano dalle distrazioni e dai rumori di fondo”

Non ci sono parole migliori di queste usate proprio da Bonetti su Instagram per descrivere il nuovo disco, uscito il 27 ottobre.

La musica ha il potere di trasportare l’ascoltatore dentro luoghi, una volta a lui sconosciuti, creando una nuova dimensione che cambia a seconda dei vari gusti personali. C’è chi ha bisogno di ascoltare brani tristi per scoppiare in pianti liberatori o chi, alzando il volume, scaccia a colpi di dance cattivi pensieri.

Se invece avete una voglia matta di viaggiare, “Qui” è il disco che fa per voi, che non vedete l’ora di preparare una valigia e partire verso nuove avventure (anche se come Bonetti avete paura dell’aereo).

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BONETTI X INDIE TALKS

Per la copertina hai usato una  fotografia di Luigi Ghirri. Hai mai immaginato un luogo e un discorso che ti sarebbe piaciuto fare con lui?

 Beh, iniziamo subito con le domande da cento punti!

Ci sono ovviamente mille cose che avrei voluto chiedergli, ma sicuramente mi sarebbe piaciuto parlare con lui della sua terra. Io sono piemontese, di tutt’altra zona quindi, però anch’io sono cresciuto in provincia, in un ambiente molto simile a quello che tante sue fotografie hanno fissato portandolo al di là del tempo. Quella provincia un po’ ai bordi della civiltà, ripetitiva, con quei paesaggi roboanti di silenzi. Quella provincia che negli anni del liceo facevo fatica ad accettare del tutto, ma che alla fine amavo profondamente, in maniera più o meno consapevole.

Poi all’università, le foto di Ghirri, i libri di Tondelli, di Bianciardi, mi hanno fatto riappacificare con quei luoghi e mi hanno mostrato come in realtà potessero essere uno scrigno di energie e di vitalità.

 Le canzoni sono posti pieni di ricordi ed esperienze?

 Sì, ma non solo. C’è il sottotitolo di un romanzo di Enrico Palandri, “Boccalone”, che secondo me può essere rubato per dire che cos’è – in molti casi – una canzone: è una storia vera piena di bugie.

Io nelle mie ci metto un sacco di esperienze personali e anche qualche ricordo. Ma poi l’obiettivo è sempre quello di portare il discorso su un altro piano. La canzone è uno dei pochi posti in cui si può maneggiare il tempo.

Tempo che tra l’altro, per ironia, è alla base di ogni brano: la parte musicale è rigidamente fondata sul tempo che detta le regole di tutto il resto. Ma poi, nel testo, si può giocare con il concetto di tempo, mischiare a proprio piacimento presente, passato, futuro, il tempo reale con il tempo della fantasia. E poi la canzone può essere riprodotta anche a distanza di anni, riportando un tempo senza tempo in un contesto preciso, anche molto diverso da quello in cui è nato il brano.

 Se facessi il camionista quale tratta vorresti percorrere?

 Circa un anno fa ho fatto il più bel viaggio della mia vita: sono andato da Milano a Dublino senza prendere l’aereo. Ho dovuto cambiare moltissimi mezzi (treni, bus, traghetti, metropolitane), e insomma, è stata un’esperienza molto particolare. A un certo punto mi sono ritrovato ad attraversare su una linea ferroviaria secondaria un pezzetto di Normandia. Ecco, mi piacerebbe tornarci.

Certo, considerato come guido sarebbe bene che il camion lo portasse qualcun altro, io penso che potrei tirare giù tutto già al primo casello.

 Le risaie cosa simboleggiano?

 Le risaie simboleggiano una sorta di terra di mezzo, un luogo sospeso tra la fine di una fase e l’inizio di una nuova. Quel momento di calma in cui si termina di metabolizzare un passato recente e nel mentre ci si carica già per affrontare un nuovo presente.

Tra l’altro, nel mio caso, le risaie hanno rappresentato anche tridimensionalmente questo concetto. Quella canzone l’ho scritta in una sorta di periodo ponte in cui avevo lasciato la mia casa a Torino, ma non mi ero ancora trasferito a Milano. Prendevo più volte a settimana l’Interregionale che unisce le due città e proprio a metà strada, tra un caos metropolitano e l’altro, fuori dal finestrino apparivano le risaie del vercellese e del novarese.

Esattamente come una sorta di stacco tra una città e l’altra, tra un periodo della mia vita e l’altro. A quel punto l’immagine mi è sembrata perfetta per raccontare quello che avevo in testa.

La metropolitana, sempre incasinata, con gente che va su e giù è un po’ una metafora per rappresentare la vita dell’essere umano?

 Più che altro, nel caso della mia canzone, rappresenta l’invadenza di un certo tipo di quotidiano. “La metro alle sette” l’ho scritta quando vivevo a Milano, che è una città che fa percepire la sua presenza in ogni aspetto della vita personale di chi ci abita.

È una canzone che condivide le tematiche con “Siamo vivi”, il brano che la precede nell’album. Anche in questo caso c’è un confronto tra le ore lunghe di chi è senza un lavoro e le ore frenetiche di chi invece è inghiottito dalla frenesia di mille impegni. Ho poi cercato di enfatizzare questo aspetto cantando le strofe su una batteria molto presente, con un ritmo dispari e un po’ “nervoso” che se da un lato quasi soffoca le parole, dall’altro condiziona molto il loro scandirsi. Che è un po’ quello che percepivo in quella situazione quotidiana: la mia vita sballottata e soffocata dalle dinamiche di quella città futura.

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 In un tuo vecchio brano, precisamente “Il futuro”  dici che vorresti andare in Portogallo. Appena si potrà tornare a viaggiare cosa hai in mente di visitare?

 Non ho mai visto Berlino. Vorrei tanto andarci, ma più di tutto vorrei tornare per l’ennesima volta a Parigi.

Non sono mai stato nemmeno in Portogallo, ma potrei andare avanti con questo elenco per ore: avendo paura dell’aereo sono tantissimi i posti che non ho mai visto.

 Hai un lato del tuo carattere che vorresti scoprire meglio?

 Non è tanto lo scoprire, quanto il coltivare. Sono piemontese e sono della Vergine: insomma, una combo potenzialmente pericolosissima. Per me è fondamentale continuare a coltivare con grande cura la mia parte meno razionale e più istintiva.

Ecco, lo vedi, è un controsenso coltivarla con grande cura. Niente, è più forte di me, sono proprio della Vergine.

Credi che quando si muore si va da qualche parte?

Pensavo che la domanda più difficile sarebbe stata la prima e invece, sbamm, gran finale!

Francamente quello della reincarnazione è un concetto che mi ha sempre affascinato molto. Voglio dire, alla fine non sarebbe male rivivere una vita. E poi magari in un’altra vita potrei finalmente vedere il Toro vincere un campionato o addirittura diventare io stesso un calciatore.

Il più grande sogno della mia vita che resterà per ovvi motivi irrealizzato (a meno che il presidente Cairo non decida di accogliere questo mio appello) è quello di giocare un derby. Ma questo è un altro discorso.