Il viaggio tra musica e parole di Kublai

Kublai non è soltanto il progetto di Teo Manzo, ma anche il nome del suo ultimo album, mix di contaminazioni elettroniche e lo-fi che si legano alle parole di racconti leggeri e pesanti allo stesso tempo, come nuvole rigonfie di pioggia.

L’album “Kublai” pubblicato il 4 dicembre, grazie alla fondamentale produzione e sinergia lavorativa di Filippo Slaviero, cerca di mettere insieme quello che è il continuum musicale costituito da nove brani o arie, che non riprendono dalla forma strutturale chiusa della canzone, ma si aprono, come così come i testi, a riferimenti e a interpretazioni semantiche disparate.

Sia il nome Kublai, che il riferimento in “Orfani e creatori” a Marco Polo e Kublai Khan del famigerato libro Le città invisibili di Calvino, fanno sorgere spontaneo un collegamento con la letteratura e con la cornice narrativa del testo calviniano. A differenza di quest’ultimo però le voci che si sentono nell’album, anche se inizialmente sembrano essere duplici, pian piano poi queste tendono prima a unirsi in un unico suono, e dopo a dissolversi nelle note fino ad essere sovrastate dalla musica.

Abbiamo però preferito approfondire meglio il discorso direttamente con l’artista.

 Intervistando Kublai

Il tuo album si svolge più che come un monologo, come un dialogo, che a dirsi dal tuo nome non può che portarci a pensare a quello tra Kublai Khan e Marco Polo. Quanto hanno inciso su di te le immagini delle “Città invisibili” di Calvino?

Su di me moltissimo, su questo disco poco in verità. Ho preso in prestito quella suggestione per dare un riferimento, un appiglio all’ascoltatore che ne avesse bisogno. A parte il titolo, però, non c’è nessuna dichiarazione esplicita sull’identità dei due protagonisti del disco, possono essere Marco e Kublai come no; ognuno può dare loro il volto che preferisce, o non darlo affatto. In tutto ciò che scrivo, cerco sempre l’ambiguità, alludo a più cose contemporaneamente. Solo in rarissimi casi, nell’arte, approvo la cronaca, la descrizione.

E se potessi scegliere in quale delle tante città descritte nel libro, in quale sceglieresti di vivere?

In tutte quelle che hanno un loro doppio, una versione speculare. Eusapia è una delle mie preferite, la città con una grande catacomba nel sottosuolo, dove i morti vengono imbalsamati in posa, come in un presepe, intenti nelle attività che svolgevano in vita. Però i morti si annoiano, e quindi ogni tanto fanno dei micro cambiamenti. Quando i vivi scendono nell’Eusapia inferiore, scoprono una città sempre diversa, e la vogliono emulare. Quindi, alla fine, non si sa se i vivi abbiano creato i morti o viceversa. Anche nel videoclip di “Orfano e Creatore” c’è una citazione di questo brano di Calvino.

Guardando il tuo video di “Orfano e Creatore” si può notare una commistione tra pittura, musica, letteratura: qual è l’ingrediente segreto per dare vita a opere d’arte del genere?

Non esiste un ingrediente segreto, esiste una volontà espressiva anziché comunicativa. In poche parole, se voglio comunicare al prossimo un messaggio semplice, non è detto che l’arte sia un mezzo adeguato a questo scopo. Questo è il motivo principale per cui prolifera la musica brutta, perché viene usata, a sproposito, per “dire cose” che si potrebbero benissimo dire con altri mezzi. Viviamo ancora nell’era del semplice=bello, praticamente una piaga sociale. L’arte (e quindi anche la musica leggera, perché no) esiste piuttosto per riassumere significati complessi, per dire l’indicibile, l’ineffabile, l’impossibile. Non per dire quello che potrei benissimo dire con un vocale su whatsapp, o in un articolo di giornale, o in un post, tutti luoghi dove regna incontrastata la comunicazione. La musica, invece, è più vicina al polo dell’espressione. Sto semplificando ma il senso è questo, più o meno. Quindi, per risponderti, il segreto è tenere insieme tante cose contemporaneamente, è la potenza di calcolo, coordinata con l’efficacia espressiva (e non comunicativa!). Ma tutto ciò non è un segreto, è il grande mistero della bellezza, che non si può decodificare, perché in verità non è mai stato codificato.

In che modo i brani in “Kublai” si articolano come se fossero delle arie?

Diciamo che i brani, tra le altre cose, contengono anche delle arie. Quasi nessuno dei pezzi è strutturato in forma di canzone, cioè di strofa più inciso. A volte ci sono solo strofe, a volte solo incisi, a volte versi sparsi, a volte sezioni strumentali. Possiamo dire che “Kublai” non è una somma, una raccolta di canzoni prescritte. Ha uno sviluppo lineare, inizia e muove in una direzione.

Il viaggio musicale e semantico compiuto nell’album, lo descriveresti più vicino al reale, al tangibile o lo avvicineresti di più alla visione del Kublai letterario, e, dunque, come un viaggio compiuto attraverso gli occhi di qualcuno?

Credo che le due cose possano coesistere. Come dicevo, il percorso è uno, ma i modi di “sentirlo” sono più d’uno. Per ottenere questo effetto è necessario stratificare molto, assemblare una struttura che abbia un nocciolo e una scala di anelli semantici successivi e autonomi. Lo spirito generale di questo progetto, però, sta nella tua seconda opzione: guardarsi ed evolvere attraverso qualcun altro.

Quanto può essere affine il tuo rapporto con Filippo Slaviero (producer) a quello che c’è tra il giovane veneziano e l’imperatore dei tartari?

È affine nella complicità, a dispetto delle differenze. A parte questo gioco di corrispondenze, Filippo è stato fondamentale per ottenere questo risultato. Mi sono sempre mosso in risposta ai suoi stimoli, ho trovato un passaggio in un campo sconosciuto, mi sono adattato. Ciò ha prodotto qualcosa di inatteso, ma credo, immodestamente, unico.  Per un artista la premeditazione e il controllo maniacale sono più spesso una croce, che qualcosa di utile. Almeno per me è senz’altro così.