Fiecco: “Ridere delle proprie sconfitte” | Intervista

Crescere significa ridere di se stessi. Dare valore a ciò che ci mette a disagio o che ci fa imbarazzare può farci cambiare prospettiva sulla realtà, dandocene una nuova, più spontanea e magnificamente reale. “Riunione di gabinetto” è il nuovo album di Edoardo Fiecconi, in arte Fiecco, ed è scritto proprio in questa prospettiva qui. È la descrizione del quotidiano attraverso gli occhi di un ragazzo che ha deciso di non prendersi troppo sul serio e il risultato è piacevole come quelle mattine in cui ci svegliamo con calma e in pace con il mondo. Un sound che culla e un testo che fa sorridere perché non ci si può non rispecchiare in quelle bellissime, imperfette esperienze di vita vissuta.

Intervistando Fiecco

Più che un album, “Riunione di gabinetto” sembra un film, il film della tua vita. La tua spontaneità regala immagini nitide, un po’ come quella di copertina. Come mai hai scelto proprio quella?

Sono contento che sia passata questa impressione dall’ascolto del disco. In effetti è vero, le mie canzoni parlano delle mie gioie e delle mie disavventure attraverso immagini, spesso patetiche, tratte dal quotidiano più spiccio, che penso un po’ tutti abbiamo nel nostro background, e che comunque nei miei pezzi hanno la funzione di rimandare sempre a dei precisi stati d’animo. E come giustamente dici, questo vale anche per l’immagine di copertina dell’album, che è un po’ la metafora di come provo a guardare la vita. Mi spiego. La musica per me ha una funzione autoterapeutica, e quando a casa dei miei, sotto una pila di vecchi ricordi, ho trovato quella foto che ritrae me e mia sorella seduti sul water da piccoli, immediatamente ho capito che quella sarebbe stata l’immagine perfetta per mostrare proprio questo aspetto. In un certo senso le mie canzoni sono il modo per ribadire a me stesso che posso essere felice solo quando accetto di crescere, conservando però lo spirito sincero, autoironico e spontaneo di quel bambino che ride sul water.

Chi ti piace ascoltare?

Non ascolto molta musica, o meglio, ne ascolto tanta ma sono monotematico. Ultimamente, dopo delle esperienze vissute negli Stati Uniti, mi sono avvicinato al mondo del country e del blues. Da un anno a questa parte sono in fissa con John Mayer. Amo le sue canzoni perché parlano del quotidiano in maniera diretta, ma sopratutto perché appunto uniscono la genuinità del country e la sensualità del blues al mondo del pop. Credo che in futuro queste nuove sonorità influenzeranno la mia scrittura.

Quanto ci ha messo a prendere forma “Riunione di gabinetto”?

Non è stata facile la gestazione dell’album, dal momento che ho fatto tutto da solo e perdipiù non sono un professionista del settore. Mi sono quindi rimboccato le maniche, consapevole che sarebbe uscito fuori un disco inevitabilmente lo-fi, e dopo un annetto circa ho visto nascere l’album. Il grosso di “Riunione di gabinetto” l’ho scritto a partire dal primo lockdown, proprio per trasformare quest’onda emotiva che ha invaso tutti noi, anche se alcuni pezzi, come “Autogrill”, “Una panciata al Trasimeno” e “Newark” li avevo già scritti nell’anno precedente.

Marche, Lazio e Toscana sono un po’ i tuoi luoghi del cuore. C’è qualcosa di particolare che associ ad ognuno di loro?

Trovo divertente il fatto che quando sono a Roma mi scambino per toscano e qua in Toscana, invece, per laziale. Quando poi confesso che sono marchigiano, di Jesi, una città nell’entroterra anconetano, qualcuno capita che ci rimanga male. Alle Marche, dove ho vissuto fino a diciannove anni, prima di trasferirmi a Firenze per studiare all’università, associo la cultura delle origini, l’ambiente della famiglia, che ancora vive là, e degli amici di vecchia data. Alla Toscana, e in particolare a Firenze, dove tutt’ora vivo, associo la libertà, la riscoperta di me stesso e il futuro. Al Lazio e a Roma in particolare non posso che associare invece la mia indole, romantica e “malinconicamente ironica”, nonché qualche traccia nel mio dialetto. Dopotutto sono cresciuto a pane e Verdone, che è uno dei miei eroi inamovibili, e questo fa sì che un pezzo di Roma sia sempre metaforicamente presente in me.

Quali sono, secondo te, i tratti più distintivi della tua personalità?

Il mio biglietto da visita è la mia timidezza, anche se dopo rotto il ghiaccio rischio di essere così logorroico che qualcuno magari mi avrebbe preferito ancora timido. Credo che un aspetto che mi contradistingue sia l’autoironia, il credere che si possa trovare un aspetto divertente in quelle che consideriamo le nostre sconfitte, per riderci sopra e così poter voltare pagina più facilmente. Nella mia vita do un’importanza centrale a tutte le volte in cui mi sento a disagio, imbarazzato, nel posto sbagliato nel momento sbagliato, a tal punto che il valorizzare questi aspetti è diventato il motore piu’ potente del mio scrivere canzoni. Per il resto sono un ragazzo che ama la montagna, la filosofia, il ciclismo, il RisiKo e chi non scende a compromessi per raggiungere i propri sogni. Non mi piace chi identifica se stesso con la propria professione.

In alcuni brani come “Autogrill” si scorge un velo di trap. Cosa pensi del genere in generale?

Anche se non sono un amante del genere trap, è vero, in alcuni brani ci sono sonorità piu’ elettroniche che possono ricordarlo. Quello che non mi piace di questo genere è il modo in cui a volte ci si approccia alla scrittura. Premettendo, come diceva Wittgenstein, che in arte è difficile dire qualcosa che sia altrettanto buono del non dire niente, penso che la trap sia spesso il luogo dove spacconerie gratuite e atteggiamenti prepotenti trovano il loro sfogo, trasformando la musica in una forma di intrattenimento un po’ fine a se stessa. Ammiro invece tutti quei trapper come Ghali, che utilizzano sempre delle sonorità trap, ma che a differenza di tanti altri della scena scrivono pezzi che hanno un anima e un messaggio.

 

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