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TFR: “Per sopravvivere dobbiamo restare uniti” | Indie Talks

Di Filippo Micalizzi

Se cerchiamo il significato di gabbia dorata su google la prima definizione che si trova è: “situazione o luogo che, pur offrendo benessere e privilegi, limita fortemente o del tutto la libertà di azione”. 

È proprio questa la dimensione in cui ci trasportano i TFR con il singolo Catramen. Una Milano che ti avvolge con le sue mille opportunità, ma che allo stesso tempo ti costringe ad una routine frenetica ed alienante senza vie di fuga. Di questo e del modo in cui è possibile evadere ne abbiamo parlato direttamente con loro in questo nuovo Indie Talks.

Intervistando TFR X Indie Talks

Milano è da sempre riconosciuta come la città dalle mille opportunità, nel brano viene invece descritta come una prigione alienante da cui si tenta di fuggire. Si può dire quindi che sia un falso mito, oppure è solo una questione soggettiva?

Non è un falso mito: di opportunità qui se ne creano molte. Quello milanese è però un po’ come il sogno americano: aspirazionale, febbrile e, per la maggioranza delle persone, tradito. Milano offre l’idea di una conquista di libertà e di emancipazione: dalla provincia, dalla noia, dalla povertà, come promettono le grandi città. In realtà incarna anche i limiti di queste, senza mantenere tutte le promesse. L’offerta culturale è sicuramente più viva di tanti altri luoghi liminali, ci sono possibilità continue di incontro e di “riempimento” del nostro horror vacui. Ma quanto di tutto questo è poi realmente accessibile, in termini di tempo, energia e denaro? Quello che rimane al soggetto è la scelta di uno stile di vita adeguato alle proprie necessità, a volte forzata. Ovviamente ci sono ancora cose positive che riusciamo a intravedere, e non pretendiamo certo di parlare per tutti: ma non possiamo non far emergere queste sensazioni urgenti. La musica riesce a essere in questo anche catartica.

Per fuggire dal senso di alienazione, qual è il primo posto che vi viene in mente in cui vorreste scappare?

Alessandra: Essendo nata e cresciuta nella provincia biellese, il posto che immagino come un rifugio è circondato da boschi e praticamente privo di cemento. Sullo sfondo ci vedo le montagne. L’aria è pulita e non ci sono rumori che non siano quelli della natura.

Marco: In bici lungo la costa di Livorno, ci ho passato tutta l’adolescenza e rimane uno dei pochi luoghi capaci di farmi distendere.

Rifugiarsi nei ricordi può essere una salvezza o si rischia di finire in un’altra forma di prigionia mentale?

Dipende molto dalla funzione che assegniamo al rifugiarsi e al grado di consapevolezza di un individuo. I ricordi sono un posto spesso molto comodo, troppo comodo, in cui si può rischiare di rimanere impantanati. Il passato non va cancellato, ma va riprocessato perché possa insegnarci qualcosa su di noi e sul mondo e impedirci di fare sempre gli stessi errori.

Alla fine del ritornello dite “tra le mura di casa senza malumori basta non restare da soli”. Avere qualcuno accanto può curare definitivamente il malumore o rappresenta solo un palliativo?

Sicuramente in una città dove si incontrano migliaia di persone è più difficile costruire rapporti duraturi e continuativi. Nello stesso tempo, a volte si sceglie di stare insieme solo per colmare un vuoto e questo ci rende ancora più soli. Per resistere, e creare qualcosa di nuovo, dovremmo concentrarci su quei rapporti che ci permettono di creare comunità: la città e il sistema in cui viviamo lavorano sull’isolamento. Per sopravvivere dobbiamo restare uniti. 

Con la città ci avete fatto pace o vi sentite ancora intrappolati in gabbia?

Marco: Io tendenzialmente ci ho fatto pace, alla fine nessuno ci costringe a vivere in un luogo che riteniamo avverso. C’è solo bisogno di costruirsi la propria realtà funzionale rispetto alle disfunzionalità che ogni giorno si ripropone.

Alessandra: sarà che sono qui da più tempo (15 anni, contro i 5 di Marco), ma il mio rapporto con la città è in crisi ormai da anni, e non credo sia recuperabile. Ho imparato a convivere con questa consapevolezza e adotto strategie di sopravvivenza, compreso lo sforzo di concentrarmi su cosa mi dà e non solo su quello che si prende, e sulle possibili alternative. Il nostro approccio, comunque, vuole essere costruttivo: altrimenti come si può pensare al futuro?

 

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