Dopo tanta attesa, ecco che arriva la prima parte dell’ultima stagione di Ozark: il regno del crimine non si ferma mai. Una delle serie più amate di Netflix continua il suo viaggio con 7 nuovi episodi e si presenta ai tantissimi fan con Jason Bateman sempre al centro di tutto.
Produttore, regista e attore principale è stato il primo a credere fermamente in questo progetto, portando sotto i riflettori una serie che risulta – ora come ora – una delle più amate della piattaforma di streaming americana.
Ecco quindi che il dolore, i soldi e i crimini che accompagnano la famiglia Byrde tornano sul piccolo schermo, pronti a regalare a tutti nuovi incubi e nuovi colpi di scena.
I fan non aspettano altro.
Marty Byrde è un consulente finanziario che vive con la famiglia – la moglie Wendy, il figlio Jonah e la figlia Charlotte – a Chicago.
Insieme alla moglie Marty Byrde decide di cominciare a sfruttare la sua infinita esperienza nel mondo degli investimenti per fare soldi più velocemente. Inizia così a creare i primi espedienti per il riciclo di capitali per il cartello della droga di Navarro.
Un primo compromesso morale, un escamotage narrativo con cui tutti i personaggi principali, prima o poi, dovranno confrontarsi.
Il dolore e la violenza figlie di certe scelte, le zone grigie di una società da cui la famiglia scappa, derivano tutte da questa decisione.
Perché il protagonista perde il controllo della situazione, ed è costretto a scappare. Scappare lontano da tutto e da tutti: a Ozark, nel Missouri, una cittadina sperduta che sembra il posto ideale per continuare a riciclare denaro.
La famiglia Byrde entra in contatto con le figure politiche di Ozark, costruisce una chiesa e un casinò (portando a spasso per il paese l’amore sacro e l’amor profano), finanziano un’impresa di pompe funebri e si ingegnano per trovare un modo adatto a liberarsi dei cadaveri delle loro vittime.
Costruiscono, in definitiva, un microuniverso in cui coinvolgono tutte le persone che incontrano nella spirale che li sta trascinando verso il basso. Stanno affondando, e si aggrappano a tutto – e a tutti – quelli che trovano per non affogare. È tardi, ormai. E tutta la famiglia se ne rende conto, col passare delle stagioni.
Sono costretti a discutere con parroci, uccidere per difendersi, subire torture e guardarsi dagli investigatori dell’FBI.
Continuano ad affondare, ma si rifiutano di vedere l’acqua che invade loro i polmoni, e tossiscono, tossiscono, tossiscono.
Ogni colpo di tosse è un nuovo crimine, violento, improvviso, che scaccia per un istante la sensazione di annegamento. Ma il secondo dopo tornano a bere, schiacciati dai loro stessi peccati.
E ogni secondo che passa l’acqua che invade loro i polmoni aumenta.
E la spirale, a Ozark, lentamente continua a chiudersi.
Perché se la spirale continua a chiudersi nella cittadina del Missouri di Ozark, i protagonisti, come abbiamo detto, non si arrendono.
Continuano imperterriti, spesso anche in solitaria rispetto al resto della famiglia, a lottare. Persino i figli: hanno ereditato dal padre la ferma convinzione che non esiste la parola “arrendersi” nel loro vocabolario.
Che naturalmente è un’arma a doppio taglio: se da una parte caricano continuamente la portata di drammaticità, dall’altra questo continua lotta porta gli autori a cercare soluzioni molto più fantasiose.
E i puristi della verosimiglianza potranno storcere il naso di fronte a qualche trovata più “creativa”, ma il messaggio che la serie vuole lanciare è molto chiaro: la corruzione c’è, e si trova in ogni ambito della nostra società. Dalle case farmaceutiche alla politica, arrivando a toccare – udite udite – persino la chiesa. Senza, naturalmente, dimenticare la misteriosa e onnipotente (almeno in apparenza) FBI.
La fotografia spenta, che accompagna le coscienze smorte dei protagonisti, ci racconta di un mondo dove la morale è morta, lei sì già affogata nel lago di Ozark: rimane spazio solo per un dolore sfumato, perché che dolore possono provare dei criminali che il proprio destino se lo sono scelto?
È questa la grande differenza tra loro e i protagonisti di un accesissimo Orange is the New Black: le protagoniste in prigione non hanno avuto scelta – quantomeno la maggior parte – i Byrde reggono tra le loro mani insanguinate la pala che stanno usando per scavarsi la fossa.
Perché in Ozark 4 c’è la ricerca ossessiva di un nuovo espediente per caricare la narrazione: lo studio dei personaggi.
Se la camera di Bateman nelle prime 3 stagioni ha cercato di inquadrare l’esterno, le lotte, il sangue, le sparatorie, in Ozark 4 parte 1 succede il contrario.
L’obiettivo guarda dentro i personaggi, che cominciano a fare i conti con tutto quello che hanno causato. La fotografia smorta si appoggia ai visi sempre più tirati, alle espressioni sempre più spente.
Continuano ad affogare, e l’acqua nei polmoni inizia ad essere troppa.
Sempre più soli, sempre più disperati.
Il trend di una trasformazione fisica che accompagna da sempre le serie TV di questo genere: da Breaking Bad a True Detective il corpo si spegne, dimagrisce. Perde di volume.
Perché Ozark 4 parte 1 si colloca tra i thriller che coniugano mafia, soldi, droga e, soprattutto, relazioni familiari.
E tutte queste serie portano a un solo epilogo: la solitudine.
La morte/non morte di Walter White, il grigio Rustin Cohle accompagnato da una confezione di lattine di birra.
Non c’è spazio per nessuno se non per te stesso, nell’abisso.
E questo Ozark 4 l’ha capito benissimo, e ha appena cominciato a metterlo in pratica con tutte le armi che possiede.
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