Di FIlippo Micalizzi
La vita è un insieme di variabili che nemmeno sforzandoci riusciremmo a calcolare. Ed in fondo va bene anche così, siamo persone non macchine. Sbagliamo, soffriamo, ricadiamo nelle stesse vecchie abitudini ancora e ancora, ma nonostante tutto siamo in grado di ricominciare.
Gli Elephant Brain sono l’esempio perfetto se si parla di ricominciare a vivere; dopo due anni dal loro precedente lavoro e una pandemia di mezzo, tornano più carichi che mai con “Canzoni da odiare”, un disco nato dall’esigenza di dover combattere tutte le fragilità nate da quel lungo periodo di isolamento. In questo nuovo Indie Talks, di cosa significhi ricominciare a vivere di nuovo, ne abbiamo parlato direttamente con loro.
A dirla tutta, in quel lungo periodo, il solo pensiero di tornare a fare musica ci stava facendo del male, ma paradossalmente è stato proprio in quella sensazione che abbiamo ritrovato la nostra normalità. La routine ci ha sempre tenuto costantemente attaccati alla musica durante quei mesi e nelle strane e scombussolate vite di ognuno.
È un disco che realmente abbiamo odiato, ci siamo accorti che non vedevamo l’ora di farlo uscire e soprattutto di suonarlo dal vivo. Tutto quello che a distanza di tempo provavamo ad aggiungere, andava un po’ a snaturarne il significato, la sua identità, ci sembrava che non ci stesse bene in qualche modo. Sulla storia che la musica sia una salvezza ci sarebbe molto da dire, lo è nella maniera più assoluta per certi versi (a noi ha letteralmente salvato la vita in più di un occasione). Le rinunce, lo stare a sbattersi per giorni e giorni sopra una parola che non torna, vedere in alcuni momenti più i tuoi compagni di palco che i tuoi affetti, può diventare pesante. E lo odi un po’ forse anche perché hai scelto consapevolmente di farlo, hai trent’anni e, com’è nel nostro caso che di musica non ci viviamo, devi gestirti una vita in cui sai che ogni momento libero sarà fagocitato dal pensiero di scrivere, dalla frenesia di dover fare qualcosa in più. Estremizziamo, ma forse alla fine è proprio in questa instabilità, data dal dover incastrare la musica all’interno delle nostre vite frenetiche, che riusciamo a trovare una sorta di equilibrio. L’odio poi non è il peggiore dei sentimenti, anzi, l’indifferenza è di gran lunga peggio.
Direi proprio radicalmente. Calamite e comunque tutto Canzoni da odiare è stato un disco scritto “in solitaria”, ognuno da casa propria con una cartella drive e una scheda audio. Abbiamo abbandonato (per dovere purtroppo) il metodo di scrittura della sala prove e del vagliare i provini attraverso il “vediamo come suona live” e il risultato sarà sicuramente diverso, nel bene o nel male. Poi chiaramente tutti i pezzi sono stati rivisti insieme.
Sì, o almeno ci abbiamo provato. Tante volte il mettere in musica determinati aspetti di noi stessi ci aiuta ad uscirne o comunque a viverli meglio. È come una specie di terapia, anche se nessuno potrà mai toglierci le nostre incertezze o le nostre fragilità, metterle sul piatto insieme ad altri cinque amici condividendole in una canzone magari ti dà quel grado di consapevolezza in più per riuscire ad affrontarle e, magari, anche iniziare a conviverci.
Quando abbiamo scritto Mi sbaglierò avevamo proprio in testa il ruolo che nel disco e nel concerto avrebbe dovuto avere. Doveva aprire la strada a tutte quelle “paure” o a volte “errori” che ci sono dietro all’ascolto di un disco per la prima volta o il primo accordo a inizio di un concerto. Aveva il compito (e almeno per noi lo ha avuto) di farci immaginare un palco quando un palco realmente non c’era.
Sbagliare per noi è fondamentale. Senza determinati sbagli non credo saremmo qui.
Ci sembrava la scelta più naturale, all’inizio però non ci abbiamo neanche ragionato troppo sul senso. Aveva un finale lungo, che rimaneva e che poteva funzionare bene come chiusura del disco e l’abbiamo messa lì. Di base poi non si è più spostata, abbiamo solo aggiunto Pt. 2 (odiare) per dare ancora un po’ di respiro all’album e lasciare qualche secondo in più per digerire il tutto. Purtroppo con quello che resta ci si fa i conti generalmente sempre alla fine, sempre un po’ a ritroso, con il senso di qualcosa che è cambiato e che si è inevitabilmente perso.
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