Figlia del caso | Indie Tales

Figlia del caso | Indie Tales

Di Stefano Giannetti

Dietro di noi, il buio. Davanti, la luce. Che non ci rende chiaro niente.

«Ma come cazzo ci siamo finite qua in mezzo?»

I fari dell’auto puntano solo boscaglia.

«Eh, lo devi chiede al navigatore. Mica a me.»

«Secondo me sei tu che hai sbagliato a seguire le indicazioni.»

Se c’è una roba che mi fa imbestialire, è quando la macchina ce la metto io e i passeggeri si lamentano.

«Può darsi. Ma questa è una strada di merda. Non abbiamo fatto altro che prendere strade di merda. E non è che potessimo aspettarci granché di meglio a essere passate per di qua. Di notte.»

«Vabbè, se Noemi ha scelto di festeggiare il compleanno in un ristorante che a momenti non riusciva a ritrovare nemmeno lei, non è colpa mia né tua. Pareva un maniero in Transilvania.»

Fermo la macchina, gli occhi mi pizzicano. Perché vorrei guardare lei mentre dico ‘sta cosa, e non i cespugli, ma non ci riesco.

«Però è stato bello che ci ha invitate tutte e due. Almeno ci siamo riviste dopo tanto… no?»

La risposta non arriva, allora mi volto su di lei per interrogarla in silenzio. Emette un sospiro e stende spalle, testa e collo sullo schienale del sedile. Chiude gli occhi.

«Oh, Dio, facci uscire da qua in qualche modo.»

Una stilettata mi trafigge il petto. Da tanto non mi capitava così forte. Stronza. Ha cambiato discorso. Stringo forte lo sterzo. Poi spengo l’auto.

«Ci mettiamo a pregare, Mi’? Sai a Dio che gli frega di Google Maps. Se esiste. Dio, intendo. A Google Maps ci credo.»

Scuote la testa, si china in avanti e la cintura di sicurezza le disegna meglio le tette. Cerco di salire velocemente alla sua faccia, che mi sbotta contro.

«A parte che era un modo di dire, ma pure ora te la devi tirare che sei diventata atea, Ire’? E perché hai spento il motore?»

«Perché è una strada privata, e non possiamo fare casino. L’unica è scendere dalla macchina e trovare un punto più largo per girare. Rifarcela a marcia indietro è impensabile. Troppe curve e zero guardrail.»

Si slaccia la cinta, esce in un lampo e sbatte la portiera.

«Mi’! Che avevo detto del casino?»

«E piantala.»

Esco anch’io. Giro attorno all’auto. Mira ha le braccia strette contro il petto. Forse ha freddo. Guardo le sue cosce sotto il vestito arancione estivo. Vorrei stringerla ma in questo momento la odio troppo. Forse vorrei più abbandonarla in mezzo a ‘ste fratte. E in entrambi i casi non sarebbe d’accordo.

«Mi’. Vieni. Andiamo più avanti. Forse c’è un cortile dove posso fare manovra.»

Non mi guarda. Ci siamo, mo’ inizia a fa’ la bambina.

«Mira!»

Mi risponde di spalle. La sua voce è in modalità gutturale-incazzata.

«Ci dividiamo. Io torno indietro. Magari l’abbiamo superato un punto per girare e non l’abbiamo visto.»

Se non mi viene da strapparmi i capelli è per l’odore di orto, di erba umida, la stessa umidità che gela un po’ le braccia scoperte. La campagna. Mi manca così tanto. A Torino non avverto ‘sti sentori da nessuna parte.

«Due ragazze che si dividono nel nulla, di notte? Se hai altre idee geniali, tienitele.»

«Che è successo? L’atea ha paura perché non può pregare?»

Dagli. Odio dovermi sforzare di fare la battuta migliore.

«Prega tu per tutte e due, no? Magari appare un autogrill. Ho fame. O chiedigli direttamente un Camogli. Così risparmio otto euro.»

Fa un’altra volta di no con la testa, si morde le labbra.

«E ridi, Mi’. Sennò ti sanguina, quella bocca.»

Si avvicina e con una manata mi appiccica gli occhiali in faccia.

«Bestia.»

Camminiamo un po’ in avanti. Niente. Solo stradine strettissime. Nemmeno un’auto, ma dove le lasciano quelli che abitano qua? I muri delle case tagliano gli angoli tra i sentieri. Forse solo una Smart ci passerebbe.

Mi gratto la fronte, che inizia a sudare freddo.

«Devono essere quelle vie fatte quando ancora giravano solo col bestiame.»

Mira mi fa il verso con la lingua tra i denti.

«“Solo col bestiame”. Mo’ non è che siccome stai a Torino non sei più una burina come noi.»

«Sono ancora burina e me ne vanto. Ma non mi metto a invocare Dio perché non ci sono strade transitabili. Al limite farei un esposto al comune. Anche se pure là, difficile che ti arrivi un segno di risposta.»

Persino al buio vedo la fossetta che le si forma in mezzo alle sopracciglia quando si urta.

«Inutile che fai la figa. Non sei migliore di nessuno col fatto che non sei credente, Ire’. Non sei più coraggiosa degli altri. Chi ha la fede va dappertutto, confida e va avanti.»

Vorrei una birra adesso, o una qualunque bevanda gelida che mi lenisca la gola da questa conversazione.

«Ma veramente fai? La stai prendendo sul personale? Non ero io la permalosa della coppia?»

Aspetto una sua reazione sulla parte sentimentale. Niente, l’ha ignorata di nuovo. Allora affondo.

«Chi ha la fede confida, si caga sotto e va avanti. Forse intendevi questo, Mi’.»

«E forse tu stai parlando di te quando credevi. Che non hai mai accettato la sofferenza e c’hai paura di tutto quello che ti si para davanti. Il vero credente è sereno. Tu sei sempre Irene l’incazzosa. Con o senza Dio.»

Avevo dimenticato quanto ti leva i vaffanculo dalla bocca, se si impunta.

«Invece pure io so’ più serena, cocca. Non accetto la sofferenza nel senso che non la accolgo con una bottiglia di prosecco, ma da quando ho capito che tutto succede senza un motivo, sto meglio. Mi metto l’anima in pace se va tutto di merda.»

Ride isterica.

«Ah. Non ci credo manco se ti vedo.»

«Mi stai vedendo ora, San Tomma’. Guardami. Ho forse imprecato, mi sono forse lamentata come una volta davanti a questo imprevisto, pure se probabilmente non tirerò via la macchina da qua prima di domani mattina?»

Stringe le palpebre, i suoi splendidi occhi nocciola diventano due fessure.

«Questo è vero.»

Però riesce ancora a essere adorabile, quando vuole. Lei sa ammettere le cose. Io no. Ho smesso di odiarla. Ora vorrei solo morderle quelle labbra e la faccia. Abbassarle le bretelline e tirarle giù il vestitino.

Faccio un respiro profondo. Meglio perdere lo sguardo tra gli ulivi e le lucciole. Ascoltare il verso dei grilli. E meglio continuare a parlare di libero arbitrio, a ‘sto punto. Mi viene più facile.

«Mi’. Non è stato facile all’inizio realizzare di essere la figlia del caso. Non avevo punti di riferimento. Se mi capitava una sfiga il pensiero automatico era una preghiera. Due minuti dopo mi ricordavo che non avevo più un Dio, che non lo volevo, e mi venivano le palpitazioni. Ma poi sono tornata a credere, in una cosa: che chi pensa al peggio se lo manda da solo.»

«Ah, dalla fede alla superstizione?»

«No. Volevo dire che mi pongo un obiettivo, bene o male lo raggiungo. Senza baciare santini o i piedi delle statue, come facevo da ragazzina. Una fatica in meno.»

Fa spallucce.

«Ok. Ma perché ‘sta parentesi religiosa così lunga? Se sei convinta di quello che pensi, perché tutto ‘sto bisogno di ribadirlo?»

«Non credere di mettermi in difficoltà.»

«Va bene. Possiamo chiuderla?»

Mi giro un attimo verso la macchina, ormai diventata minuscola. Che brutta cosa i ricordi. Mi sono già pentita di aver iniziato ‘sto discorso. La schiena e le braccia mi si uniscono in un fremito. Riprendo a camminare, inciampo e per poco non cado a faccia avanti.

«Tutto a posto, Ire’?»

L’umidità mi sta dando fastidio, sparerei a quei grilli uno a uno. Chiudo gli occhi, cerco di ignorare la seconda fitta al petto. Riapro.

«Mi’, ma tu non ci pensi a Sabrina?»

Indietreggia con la testa, resta a fissarmi per un po’, incazzata. Poi agita un braccio e guarda altrove.

«Per favore.»

Vorrei pararmi davanti a lei, ma sarebbe troppo. Tengo solo il suo passo, diventato più veloce.

«Porca puttana. È stata travolta da un’altra macchina mentre andava alla messa di Natale! Aveva ventisei anni, come noi. Che cazzo di senso ci vuoi trovare?»

Punta i piedi a terra, non vedo le sue guance al buio ma sono certa siano diventate talmente rosse da cancellare le sue lentiggini. Le sue labbra disegnano un cerchio perfetto.

«Oh, e quindi, secondo te, non dovrebbe morire nessuno? Ma tu volevi un Dio o un genio della lampada?»

«Io non voglio niente, capito? Un cazzo di niente. E Ilenia? Tutti gli amici parrocchiani a lodare Dio, quando è guarita dal primo tumore. E quando il secondo l’ha tritata e se l’è portata? L’ho sentito co’ ‘ste orecchie: “il Signore l’ha tolta a soffrire”. Ma non ti viene da prenderli a capocciate?»

Sento il suo gemito. Poi un singhiozzo. Ho ben presente il tremore delle sue spalle. Ci poso le mani sopra, ma si sposta subito.

«B-basta, Ire’. Della tua opinione non frega niente a nessuno. Non puoi mettere becco su certe questioni, e su come la gente reagisce a ‘ste cose.»

Restiamo ferme in mezzo al nulla. Ormai sembra addirittura di vederci, come fosse giorno. Mira tira su col naso. Aspetto che respiri più piano, per riprendere.

«Mi spiace, ma non posso fare a meno di pensarci e di incazzarmi. Da quando Sabrina e Ilenia sono morte. Da quando papà sta male.»

Faccio una pausa paraculo. Infatti è tornata a guardarmi.

«A proposito, come sta…?»

«Benino. Quello che ti voglio dire, è che secondo me l’unica via per preservarci tutti dalla disperazione è smettere di credere a qualunque forma di destino o entità superiore. Almeno non restiamo delusi.»

Si prende una lunga ciocca di capelli dalla fronte e la porta dietro le spalle. Arriccia le labbra.

«Non puoi parlare così.»

«Ah, no? Ok, forse io no. Dillo a chi ha perso un figlio allora, o la moglie prima del tempo.»

«Ma ci sta pure gente che ha bisogno di una speranza. Parli facile tu, così a freddo, che hai finito mo’ di fare baldoria. Tu stai ragionando come un matematico, un…»

«OH! MA CHI È?»

Cosa? Chi ha parlato? Un uomo. La luce di una finestra s’è accesa.

«ODDIO, GIUSE’, I LADRI?»

«NO, STATTE CALMA, VINCE’! SO DU’ RAGAZZETTE!»

Mira fa la boccuccia a U.

«Ups. Mi sa che abbiamo fatto troppo chiasso.»

Si illumina la luce del portico, esce un pelato panzone coi baffi, in canotta e pantaloncini. Ci viene incontro. La scia di luce dal portone taglia un pezzo di viale.

«Signorine, ma che fate qua a quest’ora? State bene?»

Lascio parlare la mia ex, che ha più savoir-faire. Infatti gli si avvicina con le mani giunte, tanto per restare in tema.

«Ci scusi tanto per averla svegliata, è che non sappiamo come uscire da qui con la macchina. Siamo capitate tra queste stradine per sbaglio.»

La palla di lardo, forse ultrasessantenne, si strofina una mano sulla faccia, dalla fronte ai baffi. Poi si accende una sigaretta e ride.

«Ah, ma tranquille. Non siete né le prime, né le ultime. Ma è facile. Guardate a me.»

Indica con la cicca verso la sua sinistra.

«Vi bastava fa’ altri due passi. Là, più avanti, salite un po’, è brutta ma non mettetevi paura. Trovate un ponticello, ci passate sotto. Ma piano, è sterrato e c’avete una curva stretta subito che vi farà fa’ un po’ di manovre. Ma superata quella c’avete una via asfaltata a destra, poi sempre dritte e vi ritrovate sulla provinciale.»

Trattengo il mio sospiro di sollievo. Mira invece scodinzola.

«Meno male! Grazie mille!»

Il vecchio sorride sornione ai salamelecchi.

«È la rossa laggiù la macchina vostra?»

Annuisco. Lui si massaggia il mento.

«Mh. Un po’ larga. Chiudete gli specchietti prima del ponte. Ormai c’ho le misure stampate qua!»

Si batte la mano sulla fronte e continua a ridere.

Mira gli stringe la mano.

«Grazie e scusi ancora. Buonanotte!»

Mentre ci allontaniamo, le bisbiglio. Vorrei restare seria ma non ci riesco.

«Cioè, c’eravamo fermate giusto a uno sputo dalla via d’uscita.»

«Vabbè, ma non c’avremmo capito niente. Comunque, colpa tua. Se non avessi iniziato l’arringa…»

La voce del panzone ci raggiunge, in due secondi fa più casino di quanto siamo riuscite prima noi.

«MI RACCOMANDO, FATE PIANO! SE NON MI SVEGLIAVO PASSAVATE LA NOTTE QUA! RINGRAZIATE A CRISTO E ALLA MADONNA! BUONANOTTE!»

Mira si volta e gli fa un cenno di saluto. La sento singhiozzare di nuovo. Ma non come prima. Le ruggisco nell’orecchio.

«Non ridere, stronza.»

Mi dà una spallata.

«Oh, ma che vuoi da me? L’ha detto il nostro salvatore, mica io. Amen.»

Montiamo in macchina. Sono contenta che abbiamo fatto pace. Ma ora arriva la parte più difficile.

Mi sciolgo la coda. E mi sento scema. Perché tutti mi dicono che coi capelli sciolti sono più carina. Anche Mira me lo diceva. Ora pare non farci caso, osserva solo il punto dove aggancia la cintura.

«Pronta, Ire’? Gli specchietti li chiudiamo quando becchiamo ‘sto ponte, giusto?»

«Eh? Ah, sì. Per forza.»

«Tutto bene?»

Tossisco e mi liscio i capelli che mi cadono sulla clavicola. Sono patetica.

«Sì, è che, insomma, è finita un po’ a merda, ‘sta serata.»

«Vabbè, ma perché? Alla fine ci siamo divertite.»

«Divertite?»

La voce mi diventa un mugolio.

«Abbiamo pure litigato.»

La sua, invece, è più squillante di prima.

«Tu prima scoppi, poi piangi. Non sei cambiata per niente, demonio.»

Infilo la chiave nel cruscotto, la tengo senza girare.

«Lo so. Scusa.»

«Oh, ma tranquilla, eh? Poi, mi ci so’ messa pure io.»

«Non doveva anda’ così.»

«E come doveva andare? Non è successo niente, non è che non ci conosciamo. Siamo sempre state cane e gatto.»

Ma che pretendevo pure io, da questa notte? Di approfittare del caso fortuito, cioè l’essere state invitate tutte e due a un compleanno.

«Ire’, ma perché non parti? Dai che dobbiamo vede’ di non buttarci da qualche tornante. O vuoi fare davvero mattina qua?»

Ma il caso non ha motivazioni, siamo noi che lo rendiamo favorevole o nefasto. Il caso non m’ha lasciata al buio con la mia ex per far sì che rinasca qualcosa.

«No, no.»

Metto in moto, resto a fissare lo sterzo. Ma sento il suo sguardo inquisitorio.

«Che mi devi di’, Ire’? Lo so che quando fai il cagnolino bastonato, ti frulla qualcosa.»

Cerco di concentrarmi sul formicolio che mi dà il laccio del portachiavi sul ginocchio.

«Ma tu che fai dopo?»

«Dopo? Dormo. Ma mi toccherà fare colazione, se aspettiamo un altro po’.»

«O-ok.»

Espira forte col naso. La sua faccia è tornata bianca, le lentiggini dominano gli zigomi.

«Allora, andiamo? Per favore.»

Meno male che Dio non esiste, che già me lo immagino a farmi il gesto dell’ombrello dopo quello che gli ho detto. Devo supplicare. Non Dio. Mira. Ho sempre odiato farlo dopo le litigate, ma non c’era mai altro modo per tirare una volta di più la corda.

La guardo negli occhi, i suoi sono spietatamente fermi. I miei tremano.

«Mi’, io volevo fa’ qualcosa con te. Ma possiamo chiude ‘sta serata così? Andiamo a bere, o sali un attimo da me se non vuoi sta’ in giro e poi ti riporto.»

Sembra un manichino. Fa di no con la testa e nessun muscolo della faccia le si muove. Messaggio recepito.

«Irene. Non è il caso.»

Basta così. Mi sono già sprofondata abbastanza. Faccio spallucce e mi sforzo di sembrare indifferente quanto lei.

«Ok.»

Ingrano la prima e avanzo. Lei ora deve riempire il silenzio, so che lo farà.

«Comunque, Ire’…»

Appunto.

«… prima che torni a Torino ci rivediamo. Per salutarci.»

C’ha dovuto mettere Per salutarci alla fine.

«Ma sì, va bene.»

Credo che le darò la sòla, invece. Farà meno male. Perché il mio orgoglio arriva sempre prima, però? Pure quando mi lasciò non insistetti oltre i due giorni successivi. Sono un’esaurita oppure non la rivoglio veramente? E se mezz’ora fa non mi fossi incarognita sul discorso della religione? Magari sarebbe finita come volevo. Non ci capisco più un cazzo.

Si può essere cretini ad arrendersi al caso, o a credere, a sperare e sentirsi poi abbandonati da Dio, da San Gennaro o dalla Dea Bendata. Ma niente pesa di più del rimanere ogni volta delusi da noi stessi.

Racconto liberamente ispirato al brano “Spiritosa” di Assurditè