A cosa servono i dischi secondo il pubblico di Indie Italia Mag
A cura di Aurora Aprile ft Salvatore Giannavola
In un’epoca in cui il processo di smaterializzazione della musica permette ai contenuti non solo di sfrecciare più veloci di moderne auto da corsa, ma anche di proliferare più di conigli in calore, diventa sempre più necessario capire nel minor tempo possibile se un brano musicale faccia per noi o meno.
Riuscire a classificare in pochi secondi un pezzo come potenziale sottofondo, o meglio, compagno per le nostre giornate o come irritante gingle d’attesa di qualche compagnia è ormai fondamentale per tenere sempre aggiornata la nostra playlist, che sia di Spotify o del cuore.
Poche sono le canzoni che lì ci restano e tante invece quelle che ci passano solo per le orecchie e che vorremmo toglierci dalla testa o dalla pelle.
A cosa servono i dischi se dopo che li ascolti rimani nella fogna? (Mai Stato Altrove)
Nella speranza di trovare non una formula matematica, ma magari una buona strategia per districarsi nell’enorme quantità di materiale sonoro da cui siamo sommersi, abbiamo fatto qualche domanda ai nostri followers e abbiamo chiesto:
Quanto ci metti a capire se una canzone fa per te?
Non sappiamo per quale strano calcolo o congiunzione astrale, ma sembra che 30 secondi siano la quantità di tempo in cui un maggior numero di persone riesca a decretare se un singolo gli sia stato cucito addosso o sia della taglia sbagliata.
Fino a qualche anno fa un tale arco temporale sarebbe potuto sembrare magari molto breve, ma essendo ormai bombardati da canzoni dalla durata media di 3 minuti e non più di 5, questi dati non dovrebbero sorprenderci, corrispondendo ad una fetta considerevole dell’elaborato.
Gli appassionati delle parti strumentali che impreziosiscono molte produzioni spesso allungandole o dei contenuti così densi da aver bisogno di essere sviluppati su un circuito più lungo non saranno sicuramente d’accordo.
Infatti ecco che tra i dati spuntano i 50 secondi o frasi come “appena capisco dove vuole andare a parare la canzone” a sottolineare l’esigenza di un ascolto più cauto e consapevole prima di skippare al successivo.
Al lato opposto non mancano quelli che ci impiegano “un millisecondo”, magari perché si lasciano guidare dall’istinto, rischiando tuttavia di farsi scappare qualcosa che avrebbero potuto finire per tatuarsi se solo avessero avuto meno fretta di finire il “Discover Weekly” tutto d’un fiato.
Tirando le somme, una sembra la risposta più consigliabile: “a volte 30 secondi, a volte 10 ascolti”. Perché sì, per quanto banale possa sembrare, nessun pezzo è uguale ad un altro o, soprattutto, nessuno ci prende con la stessa intensità allo stesso numero di volte in cui lo riproduciamo. È solo al secondo/terzo play che ho iniziato ad urlare “Uè deficiente”, voi no?
L’emozione che ti spinge ad ascoltare un pezzo in loop?
Senza dubbio, nella moderna lotta alla sopravvivenza che i brani sembrano intraprendere per risuonare più a lungo nelle nostre teste, una sorta di strumento magico, paragonabile a quello che gli eroi delle fiabe utilizzavano per raggiungere i loro obiettivi, sono le emozioni.
Ciò che il connubio di note e parole ci suscita è da sempre il motivo principale per cui ci sentiamo come spinti da una misteriosa forza verso l’ascolto quasi ossessivo di una traccia che, il più delle volte, risulta in grado di trasportarci lontano nello spazio e nel tempo. Il filosofo tedesco Heidegger distingueva tra lo spazio fisico, quello in cui ci troviamo, e lo spazio vissuto, per cui “ciò che è sentito vicino pervade il pensiero senza essere necessariamente fisicamente prossimo”.
Questa può essere la descrizione perfetta di ciò che una canzone, accendendo in noi un senso di nostalgia, riesce a fare. Proprio questo sentimento risulta essere il più gettonato tra quelli che spingono ad ascoltare un pezzo in loop e può essere connesso ad altri aspetti emersi dal sondaggio, quali la magia che un prodotto musicale riesce a creare e l’affetto che invece siamo noi a sviluppare nei suoi confronti, molto spesso perché ci riporta ad una particolare situazione della nostra vita.
Un dato interessante è lo spuntare della parola “sublime” tra le risposte che più che un’emozione può essere intesa come motivo provocatore di emozioni più intense di quelle che il semplice riconoscimento della bellezza di un brano può suscitare. A tutte queste modalità che spingono all’ascolto quasi maniacale e che, a ben guardare, sono abbastanza “passive”, poiché ci vedono come fermi e travolti da una valanga di sensazioni, se ne aggiunge una particolarmente interessante ed “attiva”: metabolizzare.
Qual è il brano che non riesci ascoltare perchè “ti fa male”?
Ciò che molte volte una canzone ci aiuta a fare è proprio assimilare qualcosa di forte che ci è accaduto, conducendoci ad interiorizzarlo per poi poterlo meglio superare. Come in un processo catartico, volendo continuare col linguaggio filosofico o, se preferite, come in un’avventura alla Super Mario, ascolto dopo ascolto saliamo di livello verso una maggiore consapevolezza delle nostre esperienze e ciò non può che spingerci ad una ripetizione martellante.
Che sia questo lavoro su noi stessi o un semplice bisogno di crogiolarci nella nostra dolce malinconia, non dobbiamo dimenticare quello che la Musica riesce a muoverci dentro. È solo ricordandocene che possiamo costruire una buona playlist. Provare per credere!
Una buona playlist, tuttavia, non è ancora quella perfetta: il brano che ascoltavamo ad ogni occasione utile, dalla mattina sull’autobus alla doccia dopo una lunga giornata, potrebbe non solo non essere più il nostro preferito, ma anche diventare quello che ci fa saltare subito al successivo, perché ascoltarlo ci fa male.
Il trascorrere dei mesi o addirittura degli anni fa cambiare le cose e con queste cambiamo anche noi, per cui risentire certi accordi e parole può far aprire piccole ferite che si rivelano voragini. “Perché quando alzo gli occhi e guardo in cielo non vedo più l’arcobaleno, ma solo il fumo delle fabbriche” canta il King dello street pop Frah Quintale ne “I treni la notte” sembrando descrivere perfettamente quel cambiamento di visione che ciò che ci accade produce in noi.
Non a caso questo singolo figura tra i brani che i nostri followers non riescono più ascoltare, accompagnato da altre melodie dolceamare.
Salta agli occhi, infatti, il beat dai suoni freddi, quasi ghiacciati poiché in sintonia col concept dell’album in cui è contenuto (Laska, 2015), di “31/08” di Mecna. Il secondo capitolo di quella che ormai si conosce come “trilogia del trentuno” è indubbiamente uno dei pezzi più intimi del rapper foggiano con cui molti l’hanno conosciuto e nel quale si sono riconosciuti sviluppando un’empatia tale da soffrire con lui ascoltando quelle note, tanto che non sorprende poi tanto che qualcuno abbia smesso di farlo.
Anche l’artista al quale Mecna è stato più volte paragonato per il lirismo dei suoi lavori, ovvero Nesli, (“A me mi piace Nesli e sei un poeta pure tu” in “La pagherai”, Mecna) figura tra gli autori dei brani da evitare per non soffrire, con “Immagini”. D’altronde, con un testo il cui concetto chiave è racchiuso nella frase “e restano le immagini come fosse adesso” non possiamo biasimare chi ha espresso questo giudizio.
Non sono solo cantanti italiani a figurare tra le risposte al sondaggio, difatti spuntano anche gli M83, paladini del dream pop anni 90, con la straziante Wait che farebbe commuovere anche il vostro amico col Deserto del Sahara (o quello di cui canta California dei Coma Cose nell’omonima canzone) al posto del cuore.
Insomma, parte della cultura musicale del nostro stivale o meno, rintracciate il pezzo che vi fa male e, almeno per ora, selezionate “rimuovi dalla playlist. Magari a furia di sentire tutte le altre chicche che avete selezionato vi ritornerà la voglia, o meglio, il coraggio di ascoltarlo ancora!
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