Maze Festival: incontro di Streetculture & Streetwear a Torino | Il nostro racconto

Maze Festival: incontro di Streetculture & Streetwear a Torino | Il nostro racconto

Di Alessandra Ferrara

I nostri piedi, le nostre spalle, la nostra testa hanno scandito il tempo con strani movimenti su qualsiasi base invadesse l’Ex Borsa Valori di Torino. Anche il battito cardiaco, il nostro respiro seguivano il tempo come fossero un metronomo: volete conoscerne il motivo? Nel momento in cui parte un beat è come se si ricevesse una scarica di adrenalina tale da invadere di colpo tutto il corpo e “Bum Bum Cha” non smette di risuonare dalla gabbia toracica.

Per un intero weekend (7-8-9 giugno scorso), Torino si è quasi trasformata in un sobborgo americano (italianizzato al punto giusto, niente gangster!) dove skater, rapper, beatmaker, streetdancer e streetwears di qualunque età, sesso, cultura, colore di pelle hanno avuto l’opportunità di vivere la loro street art: sfidandosi, o semplicemente confrontandosi, a suon di tricks, di rime, di waves, di murales.

 

Il nostro MAZE FESTIVAL

Il Maze Festival ha regalato ad appassionati, ma anche a semplici simpatizzanti, dell’arte di strada una tre giorni davvero “Amazeing” dove la musica, nello specifico il genere hip-hop e rap, ha decisamente fatto da collante perfetto.

Non i 50Cent o l’Eminem americani ma alcuni dei rapper nostrani, da nord a sud, hanno approfondito insieme ad un pubblico attento ed incantato, tematiche legate al mondo della street music: Clementino, Axos, Tedua ed il padrone di casa Willie Peyote son riusciti a sfatare piccoli stereotipi legati al rap. Scopriamoli insieme!

L’Italia del rap

Il rap in Italia, come nel resto del mondo è stato importato direttamente dall’America. Gli anni 90’ sono stati gli anni in cui si è maggiormente diffuso: i crudi, ma dolci allo stesso tempo, testi degli Articolo 31 (“Gente che spera” ha ancora il potere di farci cantare a voce alta, dopo una calda giornata di mare di agosto); le sonorità un po’ più tenui di Neffa per poi arrivare alla genialità di Caparezza e la sua “Fuori dal Tunnel”.  

Sicuramente gli anni 2000 hanno visto approdare sulla scena tantissimi ragazzi, che dalle periferie di grandi città come Milano o da paesi del profondo sud, sono stati in grado di imporsi accanto ai grandi: ognuno con la propria storia da raccontare, ognuno con il proprio modo di scrivere in rima, ognuno con il suo modo si sentire il flow, ognuno con il suo.

Parliamo di artisti quali Marracash, Salmo, Mondo Marcio, Noyz Narcos, Ghemon, Guè Pequeno, Rancore che con la sua magistrale interpretazione accanto Daniele Silvestri, allo scorso Festival di Sanremo, è stato in grado di incantare e stupire il pubblico dell’Ariston. Ancora, i più giovani Mecna, Dutch Nazari, Nitro, Ensi , Ernia, Gemitaiz popolano le playlist di adolescenti e ventenni da Aosta a Trapani perché sono in grado di “parlare la loro lingua”.

Il rap come linguaggio sociale è stata infatti una delle tematiche affrontate durante il Talk “Rap Languages”. Raccontare sé stessi, raccontare la società che ci circonda con parole, espressioni, metafore della vita quotidiana, fa del rap un mezzo di condivisione tra le diversità:

La domenica mattina i paesani si radunano nelle chiese

E quando la messa è finita si fa aperitivo nel bar del paese

Il proprietario è un tipo cortese

Fa gli spritz e i tramezzini tonno e maionese

E parla in dialetto, però con accento cinese “

Calma le onde, Dutch Nazari

Il rap diventa quindi figlio del mondo in cui stiamo vivendo, non per forza deve schierarsi politicamente.

Il ruolo del rapper nel panorama musicale e sociale di oggi

Il ruolo del rapper è quello di dare il buon esempio: avere la consapevolezza di ciò che si scrive è sinonimo di responsabilità nei confronti di chi sta ascoltando. È poi compito di noi ascoltatori, e fruitori di testi e musica, comprendere il significato nascosto tra le parole e farne l’uso che ne vogliamo. Allo stesso tempo, è anche nostra responsabilità non volere capire nulla, ignorare e seguire semplicemente la massa, soltanto perché ascoltare un certo tipo di musica è di tendenza.

Come giustamente hanno sottolineato gli speakers, nel momento in cui crei qualcosa che reputi bello, non devi preoccuparti di altro: la cultura greca, sottolinea Axos ci ha insegnato che per creare bellezza bisogna far le cose semplicemente bene senza porsi troppe domande, nel miglior modo possibile ha rafforzato Willie Peyote.

Sicuramente la fonte di ispirazione di ogni rapper, in quanto artista, è diversa: per alcuni mezzo di ribellione contro tutto ciò che non condividi, per altri mezzo di sfogo legato alla sfera personale, per altri ancora semplice mezzo per dare sfogo all’essere introversi.

Cosa vuol dire fare rap?

Fare rap non è solo mettere insieme poche rime, orecchiabili, cantabili. Sicuramente lo è pure. Fare rap diventa una sfida con sé stessi, diventa come scrivere una poesia che solo pochi hanno il privilegio di comprendere in toto perché forse più sensibili, perché forse più attenti.

Beat, flow, freestyle sono le tre parole magiche.

Chiudo citando i versi di uno dei brani tratti dall’ultimo album di Caparezza, che credo possano sintetizzare il messaggio che la street art in generale racchiude nelle sue svariate forme, dalla musica all’abbigliamento:

Devi fare ciò che ti fa stare bene

Soffia nelle bolle con le guance piene

E disegna smorfie sulle facce serie

Devi fare ciò che ti fa stare

Ti fa stare bene, Caparezza.

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