Quante volte, dietro ai banchi di scuola, abbiamo pensato quanto sarebbe stato bello poter vedere i poemi epici su uno schermo, anziché imparare a memoria tutti quei versi? Un bel musical sull’Odissea, sull’Iliade o sull’Eneide.
Fabio Guglielmino, cantautore palermitano, potrebbe aver realizzato qualcosa di molto simile. Il suo ultimo album “Io mi chiamo Achille” è, a tutti gli effetti, un misto tra pop e mondo classico. Cosa avrebbe cantato Achille in preda ai suoi turbamenti? Già, perché anche gli eroi come Achille, Aiace e Ulisse hanno qualcosa per cui struggersi, come canta Guglielmino nel brano “Anche gli eroi piangono”. Tutto questo classicismo, che attinge a grandi autori come Saffo e Anacreonte, è però accompagnato da un sound a metà tra il rock e il synth pop, che strizza l’occhio ai mitici 80 e alle sonorità di band come i Killers. Lo stesso video di “Anche gli eroi piangono” ricorda quegli anni, a partire dal look del protagonista, il nostro cantautore della Magna Grecia.
Qui l’eroe è un po’ una rockstar: tanto affascinante quanto dannata e piena di “talloni d’Achille”. L’eroe è un dio, sì, ma un dio in terra, che soffre e gode. Semplicemente, a differenza di tutte le altre creature, è dotata di un coraggio straordinario che lo porta a compiere imprese che, in molti casi, gli costano anche la vita.
Come tutte le storie degne di essere narrate, l’album si apre con una rottura del quotidiano, una scintilla che dà vita alle vicende che seguiranno. “È già tempesta” è infatti il nome del primo brano: una tempesta ormonale più che metereologica (“Al primo lampo è già tempesta di ormoni”).
Questo e altri temi classici (nel senso di “sempre attuali”, da Omero ai giorni nostri) sono affrontati all’interno dell’album: se ne “La fuga” l’eroe si perde e cade per poi rialzarsi, “Balla (l’era degli Dei)” è invece la perdita dei sensi dovuta all’ebbrezza, che aiuta a superare l’abbandono dell’amato. Il tema dell’amore, inteso come desiderio e forza a cui non si può resistere, è invece affrontato in brani come “L’errore” e “Perso di te”, in cui è descritta la perdita di senno tipica del momento di infatuazione (“la mia fame di averti che non ragiono più”).
L’epilogo, “La mia personale Odissea”, è quasi un tirare le somme di ciò che è stata la sua vita finora, tra alti e bassi, raccontata nei precedenti nove brani. Come Ulisse torna alla sua Itaca dopo dieci anni, così il nostro eroe cantautore è pronto a godersi la vita che ha davanti, dimenticare il dolore e vedere solo ciò che di bello lo circonda: “e chi mi ha fatto tanto male non c’è più / non voglio neanche ricordare / no, non più / è così bello questo mare / così blu”.
Un poema cantato diviso in 10 brani che, in modo quasi catartico, esplorano i turbamenti dell’uomo moderno che, in fondo, non è poi così diverso dai suoi avi.
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