Ponee: “per me il concetto di banale è meno banale di quanto si pensi” | Indie Talks

Quanto è rischioso cadere nella banalità? Direi che questa domanda è stata il germe che ha innestato in me la curiosità di indagare le varie sfaccettature della “banalità”, per l’appunto in riferimento però all’ambito musicale.

Il mal capitato è stato l’artista Antonio Schiano, in arte Ponee. La motivazione che mi ha portato a scegliere proprio quest’artista è stato il suo forte eclettismo e forse anche i colori accesi e naif del suo ultimo album “Jo, Kid, Ipa, Role”, che già così non dà per niente l’aria di essere qualcosa di scontato. Ad assecondarmi poi in questa decisione è stato un suo post, in cui il riferimento a questa caratteristica era continua: “è banale dire che abbiamo cercato di stare spontaneamente fuori dal consueto e, soprattutto, che se ne fregasse di cosa va o cosa non va.”, scrive Ponee.

E così eccoci qui ad un nuovo simposio in cui si cercherà di dimostrare come al giorno d’oggi, specialmente nella musica, il concetto di banalità sia ormai totalmente relativo.

PONEE X INDIE TALKS

Ciao Ponee, benvenuto ad un nuovo Indietalks! Ispirandomi al tuo ultimo post su Instagram in cui parli di non essere banale, ti chiedo subito che significato ha per te il concetto di banalità!

Ciao a voi innanzitutto. Si, in realtà il concetto di “banale” per me è, appunto, meno banale di quanto si pensi. Nel senso che, spesso, vedo che si fugge così tanto dalla banalità che alla fine ci si trova a fare e inseguire cose senza capo né coda, anche io ci casco. È tipo un tabù e credo anche che si faccia confusione tra “banale” e “semplice”; questo fa sì che spesso si percepisca una cosa come banale e quindi non la si vive a fondo quando in realtà si tratta di una cosa semplice, che ha invece tutta la sua nobiltà e dignità.

In che modo riesci a non essere banale (specialmente nella tua musica)?

Sono uno che si fa duemila viaggi sull’uso del linguaggio e delle parole, spesso ci rimango incastrato. È tipo la storia dell’uovo e della gallina, a volte creo immagini sul foglio in base alle parole, anche sconnesse, che mi vengono in mente, a volte formulo frasi in base alle immagini miste che vedo o mi appaiono.

Se c’è qualcosa di non scontato è sicuramente il titolo del tuo ultimo EP “Jo, Kid, Ipa, Role”, uscito il 16 febbraio per Uma records, in che modo sei riuscito a tenerlo in piedi dato il forte eclettismo?

È un EP che contiene alcune delle tracce che abbiamo fatto in questi ultimi tempi, quelle che in qualche modo sentivo avessero più coerenza tra loro nell’ottica di un lavoro più strutturato. Dico “abbiamo fatto” perché ovviamente è il risultato delle idee e delle mani di tante persone. Il 2020 non è stato un anno particolarmente dinamico, in generale, ma la cosa che di più mi è piaciuta del progetto PONEE è che mi ha fatto avvicinare a diverse persone valide, ognuna con la propria competenza, e abbiamo unito le forze per supportarci a vicenda. È ovviamente tutto in fase iniziale però il gruppo che si è creato è super compatto e stimolante; da chi mi aiuta con video, immagini e foto (Ohana Studio) a chi mi dà supporto nella direzione artistica (collettivo SUPERFLUO).

Dando uno sguardo alle tracce dell’EP ciò che sicuramente risulta insolito è sicuramente la scelta di intitolare i brani come dei personaggi famosi (provenienti da aree disparate) e farli convivere insieme in uno stesso album…sbaglio?

Diciamo che non sono uno che pensa troppo ai titoli, quindi sono capitati più che altro. Però se volessi trovarci una spiegazione, più come esercizio retorico, ti direi che in effetti rappresenta bene il mio amore per il sacro e profano, per gli aspetti più “nobili” dell’arte ma anche per quelli assimilabili al “trash” più becero. Sono sempre stato attratto dalla mescolanza tra elementi distanti tra loro; ecco forse perché trovi tra i titoli “Ginsberg” e “Magritte”, a fianco a “Wanna Marchi”. È come se fosse la parata di un carnevale musicale.

Credi che avere una vocazione pop (specialmente in ambito musicale) possa essere considerata una banalità o una generalizzazione?

So che quando uno dice “ascolto di tutto” suona un po’ come “non so cosa rispondere e mi gioco la carta della generalizzazione”. Però alla fine, anche se banale la risposta, è anche molto vera. Ho una giustificazione però; nel senso che oltre ovviamente a fare musica, il mio lavoro è (leggi: era) nel mondo degli eventi e, in particolare, nella programmazione musicale/direzione artistica. Di conseguenza conoscere le correnti, il sound, le mode dell’intero panorama, per quanto possibile, è una cosa abbastanza necessaria. Ovvio che ho le mie preferenze, ma va a momenti. In generale, più che i singoli artisti e le loro canzoni, mi piacciono soprattutto le realtà coese che fanno cose; quelle realtà che hanno un approccio alla musica quasi da collettivo appunto. Per quello che riguarda il mondo sonoro a cui mi ispiro ho proprio difficoltà a rispondere o catalogarmi, ti direi un generalissimo ma dignitoso “pop” e siamo tutti felici.

Qual è il tuo “trucco” per fare in modo che i tuoi brani di oggi possano piacere al te del futuro senza farli cadere nella prevedibilità o nella “scontatezza”?

Sono uno che quando scrive ri-ascolta decine di volte, soprattutto per capire se davvero quel pezzo mi piace o è solo una illusione del momento. Infatti, ne elimino tantissimi ancora prima di finirli perché non passano la selezione. Tendenzialmente per finire un pezzo devo gasarmi ed essere convinto al 100%; tanto so già che poi il “me” del futuro lo detesterà. Non sono velocissimo nella scrittura a essere sincero, perché cerco di aspettare che arrivi il “momento” in cui so di potermi godere la stesura del brano, senza altri duemila pensieri in testa.