Nella “Ice Age” dei Nobody Cried For Dinosaurs | Recensione

Li abbiamo ascoltati nelle cuffie e poi li abbiamo visti esibirsi al loro release party tra le luci scure di un locale milanese: i Nobody Cried For Dinosaurs sono tornati con il loro nuovo ep, “Ice Age“. Si tratta del terzo album della band milanese, uscito il 25 novembre per Artist First.

Sembra un album che vuole, paradossalmente (e forse anche un po’ ironicamente), partire dalla fine. Si vede fin dal titolo, “Ice Age”, l’era glaciale, la fine di questi “dinosauri per cui nessuno ha pianto” dopo l’impatto del famoso asteroide.

E se ogni distruzione porta con sé un nuovo inizio, così potremmo vedere quello dei Nobody Cried For Dinosaurs. L’ep, racconta la band, rappresenta infatti un momento di cambiamento rispetto al passato.

“In questo terzo EP abbiamo cercato di lasciarci completamente andare esplorando nuove modalità di fare musica. Abbiamo messo alla prova i nostri limiti espressivi sperimentando con un brano interamente strumentale (Kansai Maiden Club) e con sonorità più estreme, ricche di distorsioni e inserti al limite del glitch.”

“Ice Age” è però comunque legato al passato, anche se varia leggermente direzione, perché l’identità dei Nobody Cried For Dinosaurs  viene sempre dalla stessa parte. Questo lo si rivede nella copertina legata al primo tour internazionale che la band indie-rock fece nel 2016 proprio in Giappone.

Cover di “Ice Age” di Kaled-pixel

Ice Age: nel mondo dei Nobody Cried For Dinosaurs

Insomma, abbiamo distorsione e limite. Abbiamo un passo di distanza – che però non è un irreversibile abbandono – da quel mondo più Lo-Fi che era proprio di “Here Comes The Big Bang”, ep di debutto del 2013, e da quello più disco-funk di “Ten Billion Years Later” (2016).

Nel 2020, dopo il tour giapponese, arriviamo alla pubblicazione di “Where Do We Go?”, che preannuncia il mood di quello che sarà “Ice Age”,  reso poi chiaro dai due singoli usciti nel 2021, “Charlie Sheen” e “Defective Supersight”.

Anche i Nobody Cried For Dinosaurs seguono un trend di ritorno a quel rock più “sporco” e contaminato, quello in cui l’errore non è da cancellare, ma è solamente una traccia del reale.

I pezzi di “Ice Age” si avvicinano sicuramente ad un indie-rock ascrivibile a band come i Catfish and the Bottleman, gli Arctic Monkeys di “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” o i Vundabar.

Le sonorità sono spigolose e prepotenti, in cuffia come dal vivo, e mi ha fatto pensare. Forse questa tendenza – quella della band, quella delle persone che mi circondavano quella sera, la mia stessa tendenza – è sentore del fatto che abbiamo musicalmente bisogno di un ritorno al reale. Un ritorno a quello che è sbagliato e proprio per questo umano. Che è vivo e si può suonare e cantare in una sera come un’altra e al massimo del volume.

Lo stesso volume a cui si deve sentire “Kansai Maiden Club”. Lo stesso che “Charlie” ha nelle orecchie quanto “puts his headphones on, forget the world behind” e a cui cantiamo”maybe I just need to let it go” in “Defective Supersight”.

Insomma, questo viaggio in un’epoca dove “the city is dead” e “we got to move away from here” non ce lo scorderemo presto. E io, dal canto mio, un salto nella “Ice Age” dei Nobody Cried For Dinosaurs, vi consiglio di farlo.