Fudasca: “Ho sempre voluto trasmettere l’accettazione di sé stessi e dell’imperfezione” | Indie Talks

I produttori: figure importantissime nella buona riuscita di ogni brano. Figure tanto fondamentali quanto, purtroppo, tenute spesso in secondo piano. Produrre in pezzo significa confezionarlo, dare forma e vita a idee astratte e trasformarle in materiale a disposizione delle orecchie di tutti. 

Fudasca in questo ambito è un vero maestro. Giovane produttore e songwriter romano, con il suo approccio vintage e il suo sound caldo che cerca sempre vibrazioni da instant-classic, ha convinto artisti internazionali e nostri connazionali. Ultimo ma non per importanza, il brano “Ci avrei scommesso”, che vede la collaborazione di Giuse The Lizia e Willie Peyote. Parlando di collaborazioni non possiamo non citare Jay B, Powfu, Sody o ancora Massimo Pericolo, Psicologi e Assurditè: come un giro del mondo in 80 brani.

Per l’indie talk di oggi ci siamo fatti raccontare cosa vuol dire essere un produttore e i segreti dietro ai super brani di Fudasca! 

Fudasca x Indie Talks

Ciao, benvenuto su Indie Italia Magazine! Il tuo ultimo singolo “Ci avrei scommesso” è senza dubbio una scommessa vinta. Cosa ti ha ispirato e come è nata la collab con Giuse The Lizia e Willie Peyote?

L’ispirazione per questo brano nasce da un pezzo di 070 Shake, “Trumpets”, in cui avevo apprezzato il fatto che ci fossero delle componenti prettamente jazz, ma anche una vibe moderna. Mi piaceva il connubio di questi due aspetti, quindi il pezzo è nato così, partendo da quella che poi sarebbe diventata la strofa di Giuse. Ovviamente l’idea l’ho riadattata a delle vibe più chill e lofi, con l’ aiuto anche di Daniele Baroni e Gianfranco Federico, i 2 co- arrangiatori del brano, tastierista e chitarrista.
Da lì ho deciso di costruire poi un discorso musicale, suddividere il brano in 3 sezioni per dare 3 climax diversi, pensando un ritornello più “world music” e una strofa più hip hop, sempre tutto molto suonato. La collaborazione tra me, Giuse e Willie è nata semplicemente perché vedevo nel loro modo di cantare e scrivere una diversità complementare che sarebbe stata perfetta per il pezzo, Giuse più romantico e sornione e Willie più vivido e pungente.

Che messaggi vuoi trasmettere con la tua musica? 

In generale ho sempre voluto trasmettere l’accettazione di sé stessi e soprattutto dell’imperfezione; ne ho fatto spesso quasi un “vanto” nella mia musica e cerco di riportare sempre quella componente di umanità imperfetta in ogni composizione.

Hai all’attivo collaborazioni con diversi artisti internazionali. Che differenze hai riscontrato rispetto ai nostri connazionali? È cambiato il tuo modo di creare, grazie a questi lavori?

Più che cambiato si è evoluto, ho sviluppato più conoscenze e visioni da proporre nelle varie sezioni. I risultati sono un continuo influenzarsi dinamico, la visione della scrittura italiana e il gusto italiano si mischia all’ estetica di una strumentale improntata per il Kpop e viceversa, il lo-fi hip hop americano si mischia a testi italiani ecc.

Ci sono falsi miti sui compositori e produttori che vorresti sfatare?

Più che falsi miti, vorrei sfatare lo stigma del produttore come figura secondaria. Per quanto oggi nel panorama mondiale molti produttori hanno posizioni di spicco, lo stigma del “non protagonista” ancora rimane sul produttore che spesso cura grandi porzioni della traccia ed è fondamentale anche nella scrittura del brano.

Come funziona il tuo processo creativo? Quando componi un brano, hai già in mente con chi collaborerai?

No, è difficile che abbia già in mente un nome, a meno che sappia già per chi la sto facendo. Di solito compongo per immagini e per associazione di eventi, senza stare troppo a pensare chi dovrà cantarci sopra, creo molto pensandola come “colonna sonora” dell’immagine che ho in mente in quel momento.

Quali sono i generi musicali più vicini a te? E quali invece non hai ancora toccato ma ti piacerebbe esplorare?

Sicuramente l’unione di rap e hip hop con il pop è ciò che sento più affine ai miei gusti. Ti posso citare l’ispirazione americana e canadese di Drake o di Westside Gunn, Roddy Rich, Post Malone ecc.

Un genere invece abbastanza inesplorato da produttore, ma che mi piace molto ascoltare è l’alt rock con quel mood british che mi ha sempre affascinato, sono fan di Eyedress e mi piacerebbe molto fare una cosa del genere, forse proprio con lui. In generale, però, non mi incasello in nulla e sono aperto a tutto se mi viene permesso di metterci del mio.

Il tuo primo “Ce l’ho fatta”?

Quando, ormai quasi senza speranza, mandai un mio pezzo a Bootleg Boy, un grande canale del lofi internazionale e lui accettò di caricarlo sul suo canale. Lì ho pensato “ce l’ho fatta”, ma nel senso “ce l ho fatta a farmi ascoltare” con la speranza che quello sarebbe stato solo l’inizio.

La tua sfida più grande?

Quella più grande è diventare una figura alla quale appoggiarsi a livello internazionale per qualsiasi tipo di disco, perchè quello che cerco di fare da anni è far capire che il produttore non è solo il “beatmaker” che si avvinghia ad un solo genere, ma è una figura che ha una visione d’ insieme, di guida, di compositore, di sound designer. Questa è la cosa che mi affascina di più di questo mestiere e mi piacerebbe diventarne una figura di spicco, un po’ come lo è Rick Rubin oggi.

Nel tuo futuro cosa c’è? Progetti e obiettivi? 

Sto lavorando ad un nuovo album con artisti internazionali, cercando di riportare il vibe lofi che il pubblico un po’ in tutto il mondo aveva apprezzato nel primo disco e poi continuare a raccontare piccole storie di vita quotidiana con i singoli in italiano in giro per le città, dopo Lentiggini (Roma) e Ci Avrei Scommesso (Bologna).