Venti Settembre: “Questo tempo non ci appartiene” | Intervista

PH: Ufficio Stampa

Venti Settembre: “Questo tempo non ci appartiene” | Intervista

I Venti Settembre sono una band padovana che urla contro le contraddizioni di questi tempi moderni dove tutto sembra essere al posto giusto nel momento giusto, e quando qualcosa non fa si cerca non di cambiare, ma di girare lo sguardo altrove, facendo finta di niente.

La musica può essere uno strumento per accendere i riflettori su alcune situazioni, per smuovere le coscienze o provocare interessanti spunti di protesta, andando contro anche un certo perbenismo. Già dal nome scelto, data della breccia di Porta Pia, questa band vuole rompere schemi fissi e usanze dentro le quali non si riconosce, sfruttando l’energia del rock e la forza delle parole.

“Paesaggi dimenticati” è un album che parla di rivoluzioni personali e di desideri rabbiosi che prima o poi escono fuori, anche se la ragione prova a contenerli. Un luogo lontano dal mondo, però allo stesso tempo presente dentro ogni essere umano.

INTERVISTANDO VENTI SETTEMBRE

Come mai avete scelto una data come nome della band?

“Venti Settembre” si riferisce alla breccia di Porta Pia (20 settembre 1870), quindi all’anticlericalismo. Nel nostro caso si trattava proprio di un’ostinata avversione nei confronti di tutto ciò che fosse anche lontanamente spirituale. Ma questo nome lo abbiamo scelto a vent’anni, e Guccini con piena ragione cantava che “a vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età”. Oggi siamo cresciuti, quel nome ci rispecchia solo in parte ma ci siamo affezionati e ce lo teniamo. È una cosa che accomuna molte band. Del resto chi non prova un misto di imbarazzo e tenerezza nel ripensare al se stesso adolescente?

Il nuovo disco di quali “Paesaggi Dimenticati” è abitato?

La compassione, la vita insieme (ormai sembra davvero un tabù, come diciamo in una canzone), la resistenza alle vere oppressioni. Per certi versi ci sembra di vivere tempi ai quali non possiamo appartenere. E ci rifugiamo in tempi e luoghi dimenticati. Lontano da paesaggi industriali che non vogliamo più vedere.

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I viaggi e l’amore sono tue evasioni dalla realtà con qualcosa in comune?

In realtà viaggiamo poco. I ritmi e le difficoltà della vita contemporanea non consentono a nessuno di viaggiare davvero, al limite si fanno quindici giorni di vacanza in un Paese straniero e si torna con l’illusione di averlo conosciuto e compreso. È aberrante. Si conosce il mondo più studiando che non svolazzando in giro. L’amore invece è l’unica salvezza che abbiamo. Sembra banale dirlo, ma non lo è. Oggi ci sembra che l’unica forma di amore propagandata sia quella verso se stessi, le proprie libertà, l’espressione di sé. Che è una forma di libertà importante (la cantiamo ne La Pazza) ma valida solo se ancorata al concetto di responsabilità, che oggi sembra fuggito dai più, considerato quasi oppressivo.

La malinconia ricorda un po’ la strada verso casa?

Sì, sempre. Ci si può illudere di stare bene lontano da casa, ma non siamo pesci nel mare. Le radici ci richiamano alle nostre origini. Se poi vogliamo allargare lo sguardo, la casa a cui dovremmo fare ritorno è il Giardino dell’Eden, un’età dell’oro di armonia e amore tra tutte le creature. Un luogo perduto di cui abbiamo tutti nostalgia, spesso inconsapevolmente.

Perché l’America esercita sempre una grande illusione?

L’America non ci sembra più sinonimo di sogni e libertà, quanto semplicemente di lontananza. Non andremmo mai a viverci, però dobbiamo ammettere che c’è qualcosa degli Stati Uniti che continua ad affascinarci e tormentarci. Sarà il blues, saranno i film di John Ford.

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Innamorarsi facilmente è un problema o una fortuna?

È un enorme problema. Senza stabilità siamo perduti, come individui e come società. Innamorarsi di qualcosa o di qualcuno dovrebbe significare prendersene cura fino alla fine dei nostri giorni e addirittura fino a sacrificare se stessi, senza esitazioni. Se ci si innamora continuamente lo si fa in modo superficiale e si è, come cantiamo, dei buoni a niente.

Cambiare è un’azione dolorosa?

Più che altro è inevitabile, se non cambiassimo significherebbe che stiamo crescendo solo anagraficamente. L’importante è capire strada facendo qual è la giusta direzione per progredire.

Per capire questa vita bisogna essere anche un po’ pazzi?

Forse per stare al mondo bene, comodamente, bisogna rimanere il più possibile razionali. Ma così non si entra in contatto con la poesia, con lo scarto tra il mondo com’è e come potrebbe essere. Dovremmo essere “pazzi” nel non accettare per buona alcuna verità fredda, materiale. L’arcobaleno è un fenomeno atmosferico o il segno con cui Dio ricorda al suo popolo l’alleanza? La Luna è un satellite o una forma della Dea Diana? Se ci spiegano tutto con le armi della ragione, perdiamo la meraviglia e ci accontentiamo di verità inferiori. Al diavolo l’esattezza, viva il mito.