PH: Ufficio Stampa
Le possibilità offrono una galassia infinita di scenari per ogni essere umano e se due individui scelgono di creare il loro universo ecco che l’infinito diventa un sentimento condiviso. Dalla piccolezza minuscola del microcosmo umano si arriva al macrocosmo dell’amore, dove anche l’impossibile può trasformarsi in qualcosa di tangibile e reale.
Millepiani espande la sua storia intima, arrivando all’universale, con il romanticismo che tende verso una bellezza assoluta, totalmente idealistica. “Galassia” è un brano che muta esplorando vie che spingono l’uomo oltre ogni possibile limite della ragione, con la lucida follia che in due è più facile donarsi alla follia, arrivando a scoprire nuovi pianeti.
Con la musica esploro una galassia interiore, fatta di luoghi che non esistono se non nel momento in cui li canto. È uno spazio dove convivono memoria e immaginazione, ricordi mai vissuti e verità che non riesco a dire in nessun altro modo. Ogni canzone è un piccolo varco: un pianeta che appare e scompare, un frammento di universo dove posso permettermi di essere onesto, vulnerabile e libero.
Sempre. Ogni volta. Ogni canzone è un segreto che ho deciso di non custodire più da solo. Non è mai un segreto “grande”, di quelli clamorosi. È un dettaglio, un tremito, una piccola verità che non so spiegare parlando ma che, dentro un verso, trova finalmente la sua forma.
Metto la verità che posso permettermi di sostenere. Non la cronaca, non il diario: la verità emotiva. Le mie canzoni sono piene di ciò che ho vissuto e, allo stesso tempo, di ciò che avrei voluto vivere. Sono sincere nel sentimento, non sempre nei fatti. Ma credo che sia lì che la musica diventa universale: quando la vita reale incontra la vita immaginata.
Perché il cuore è un pessimo scienziato ma un ottimo esploratore. La ragione misura, ordina, prevede. Il cuore, invece, vuole perdersi. La bellezza non è una formula matematica: è una rivelazione. Qualcosa che accade, che ti accende, che ti scombina l’asse del mondo senza alcun motivo logico. Ed è proprio in quella soggettività che diventa vera.
Sono molto legato alle immagini dell’acqua, del cielo e dei luoghi sospesi: fiumi immobili, isole volanti, oceani impossibili, costellazioni che sembrano guardarti. Sono simboli che tornano spesso nei miei testi perché rappresentano ciò che non riesco ad afferrare fino in fondo. Mi piace pensare che ognuno abbia una geografia segreta: la mia è fatta di maree, luoghi cosmici e sogni che non si decidono a svanire.
Sì, perché è uno specchio che non possiamo controllare. La diversità mette in crisi le nostre certezze, ci obbliga a rivedere il perimetro in cui teniamo al sicuro la nostra identità. Ma allo stesso tempo è l’unica cosa che ci salva dall’omologazione. Nelle persone “diverse”, qualunque cosa voglia dire, ho sempre trovato mondi nuovi, idee nuove, e un modo più autentico di abitare la realtà.
Essere straniero è sentirsi fuori posto ma non in modo doloroso. È una forma di lucidità: come se vedessi tutto un mezzo millimetro più distante, e proprio per questo più nitido. Io mi sento straniero anche dentro le cose familiari: nei luoghi che amo, nelle abitudini, perfino in certe emozioni. È una condizione creativa: ti obbliga a non dare mai niente per scontato.
Per me è peggio un rimpianto. Il rimorso nasce dal fare; il rimpianto dal non aver nemmeno provato. Preferisco sbagliare piuttosto che restare immobile. La vita è piena di strade chiuse, ma almeno se le imbocchi puoi dire: “Ho vissuto”. Il rimpianto, invece, è una stanza che non smette mai di risuonare.
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