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Tommaso Giusti: “Uto è il mio autoritratto” | Intervista
Ci sono momenti dove la vita impone il tempo di una certa riflessione. Si pensa alle paure e all’amore, a tutte quelle persone che ci sono vicine, non dimenticandosi di chi è andato via.
Tommaso Giusti si scontra con un mondo dove la poesia è sempre più rara, ribellandosi a questa dittatura dell’apatia, pubblicando “UTO”, un album sincero che mostra le ferite, trasformando il quotidiano in una bellezza che ritorna.
Accettare il cambiamento, rimanendo fedeli a se stessi è il modo migliore per essere protagonista, nonostante lo scorrere degli anni.
INTERVISTANDO TOMMASO GIUSTI
Da che necessità è nato UTO e come mai questo titolo?
UTO, il titolo del mio ultimo album, prende ispirazione dal protagonista dell’omonimo romanzo di Andrea De Carlo, un personaggio in cui mi sono sempre riconosciuto, almeno in parte. Uto è un giovane pianista introverso e inquieto, capace però di suonare con una forza tale da commuovere e di innescare negli altri crisi, emozioni e riflessioni profonde. È un libro che lessi poco più che ventenne e che è rimasto dentro di me; dopo molti anni ho sentito il bisogno di trasformarlo in musica, nella mia musica.
Uto, oltre a essere il titolo dell’album, è anche quello del primo brano, che si apre con “Questo sono io…”, raccontando di come un vecchio pianoforte sia stato per me, nel corso della vita, rifugio e liberazione.
Senti di aver raggiunto la maturità artistica pubblicando questo album?
Credo che la maturità artistica sia un’utopia. Ogni giorno impariamo qualcosa, ogni giorno arricchiamo il nostro bagaglio di vita e, di conseguenza, anche quello artistico. Penso che ogni artista, a ragione o a torto, consideri sempre il suo ultimo lavoro il migliore: non tanto per una presunta maturità raggiunta, quanto perché è inevitabilmente quello che più rispecchia il suo stato d’animo in quel preciso momento della vita. È per questo che ci appare come il più rappresentativo.
Con il passare degli anni si sente sempre di più l’esigenza di fare dei bilanci?
Assolutamente sì, è inevitabile… anche se, personalmente, vorrei avere il superpotere di evitarlo. Ma non si scappa: quando si “scavalla” nella seconda metà della vita è praticamente impossibile, almeno per me, non ripensare al percorso fatto, a dove si è arrivati e a ciò che ci aspetta. Sono bilanci che portano con sé rimorsi e rimpianti, ma anche orgoglio e gioie.

Perché in questo mondo non c’è più poesia?
Non più poesia è il primo brano che ho scritto nella mia vita, a 14 o 15 anni, e l’ho pubblicato trent’anni dopo perché lo ritenevo ancora attuale. I numeri di Spotify mi hanno dato ragione: proprio in questi giorni è diventato il mio brano più ascoltato e quello con il maggior numero di passaggi in radio, superando Quarant’anni.
Per rispondere alla tua domanda, credo che oggi ci sia un bisogno crescente di poesia: non nel senso stretto del poema, ma di poesia nelle cose quotidiane, nel modo in cui ascoltiamo noi stessi, nelle relazioni con gli altri, nel nostro sguardo sul mondo, nella musica.
Siamo distratti, frastornati dai contenuti rapidi dei social e da format televisivi scadenti, sempre più alienati dalla nostra natura di animali sociali. Anche la musica è cambiata: non parlo dei generi, che è giusto evolvano, ma della sua radice. Oggi il 90% del mercato è composto da “prodotti” creati per macinare numeri velocemente, senza lasciare traccia. È musica “usa e getta”.
Hai paura di smettere di credere nell’amore?
Sì, molta. La vita tende a disilludere, e ci fortifica creando una sorta di corteccia che ci rende più distanti dagli altri, meno tolleranti, meno aperti all’amore. Con il tempo diventiamo tutti un po’ più egoisti, ed egoismo e amore vanno poco d’accordo.
Cerco comunque di tenere accese quelle fiamme nel cuore, e dico quelle, perché ho tre grandi amori nella mia vita: Luna e Mia, le mie figlie, a cui ho dedicato un brano del precedente album Stelle (s’intitola proprio Luna Mia), e la mia compagna di vita, mia moglie.
La rabbia può portare a provare nostalgia?
Non saprei dirtelo. Fortunatamente, per natura, non conosco il rancore. Mi arrabbio, certo, come tutti, ma quel sentimento svanisce sempre in fretta. Quello che provo, piuttosto, è il pentimento: mi pento quasi sempre di essermi arrabbiato, e solo dopo capisco che ci sarebbero potute essere altre strade, altri modi più costruttivi per affrontare il problema.
L’arte del silenzio è difficile da capire?
Difficilissima. E purtroppo, per starmi vicino, è necessario comprenderla. Io parlo poco, l’essenziale. Le persone a me care lo sanno e, fortunatamente, sanno leggere i miei silenzi. Non mi riferisco solo alla famiglia, ma anche agli amici: non mi hanno mai mandato “a quel paese” per non averli cercati, chiamati o per essermi dimenticato del compleanno. Anche se non dimostro a parole i miei sentimenti, loro sanno che nel mio cuore hanno sempre un posto in prima fila.
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