Jacopo Et: Un extraterrestre molto “local” | Indie Talks

Di Vernante Amarilla Pallotti

Jacopo Et ha viaggiato nel tempo e nello spazio musicali. È partito da Bologna, volando tra sonorità dance e hip hop, è finito a Londra, laureandosi in giurisprudenza, per poi tornare in Italia a scrivere come autore per artisti come Annalisa, Fedez, Gaia e Max Pezzali. Dopo queste avventure ha deciso di camminare da solo, dal suo primo EP “Nightclub”, passando per “La vecchia guardia” ft. Jake la Furia, “Gli racconteremo” ft. Lo Stato Sociale fino a “Bellissima”, il suo ultimo singolo. Dopo tutte queste peregrinazioni possiamo considerarlo un esperto sul tema “global vs local” nell’ambito che a tutti noi interessa: la Musica. Ne abbiamo chiacchierato con lui…

JACOPO Et X Indie Talks

In quanto Jacopo Et,  provieni da un altro pianeta. Potremmo dedurre che non solo la tua musica sia global, ma extra-global…

Mah io in realtà vengo da Bologna, più precisamente da San Ruffillo. Da lì le stelle non si vedevano neanche male, ma non ho mai sognato di andarci. Mi son sempre piaciute le cose facili: lo spritz al bar con gli amici di sempre e un po’ di chiacchiere sul Bologna calcio. E la mia musica parla di quella roba lì, poi se piace anche su Marte io son contento eh. Entrando nel pratico, anche se il mio nome d’arte somiglia a quello dell’alieno più famoso di sempre, si pronuncia in un altro modo: Ettttt” come se ci fossero 5 t (un’abbreviazione di Ettorre, il suo vero cognome, ndr).

Il tuo immaginario rimanda infatti a un tempo in cui tutto era più local

Dici che il local fa parte del passato? Non ne sono convinto. Ho girato abbastanza nella mia vita, ho vissuto a Londra, Roma e Milano, ma ho sempre cercato di spezzettare il mondo in quartieri, piazzette, isolati. Non mi piace non avere dei punti di riferimento: anche quando vivevo a Londra frequentavo 4/5 posti vicino a casa e dopo un po’ mi salutavano quando entravo. Quella roba mi fa star bene. Io col global mi rapporto benone, il mondo mi piace e se domani dovessi andare a vivere dall’altra parte del mondo ci andrei. Ma la gente si nasconde nella dimensione più locale, è lì che si capiscono la cultura, le usanze, i modi di dire e tutte le cose del mondo che mi interessano davvero. Io nel mio piccolo voglio sbandierare le mie origini, i posti dove sono cresciuto e i modi di dire e di fare delle persone che ho incontrato in quei posti. Che poi magari domani le tue canzoni le canti in un posto lontano migliaia di chilometri e scopri che anche altra gente ci rivede le sue storie: quando scrivi una canzone non puoi mai sapere dove finisci.

Parlando di luoghi, ci sono 3 città che hanno influenzato la tua vita e la tua musica: Bologna, Londra e Milano. Ci racconti qualcosa per ognuna?

Molto vero. Beh sicuramente Bologna è il punto di partenza di tutto. Sono cresciuto qui e oltre ad aver esplorato la tradizione cantautorale bolognese per il lungo e per il largo, ho anche a mio modo fatto parte di quella che era la scena di rap underground locale. Sono cresciuto con Inoki e Joe Cassano nelle cuffie e alcune delle prime canzoni che ho scritto le ho cantate al TPO, aprendo i concerti di rapper più grossi che passavano da lì. Nel 2007 aprii anche un concerto di Marracash, che era un nome emergente legato al mondo di My Space. Direi che ne ha fatta di strada eppure è partito anche lui da una serie di realtà local come il TPO. Quindi global o local alla fine sono davvero così distanti? 

A Londra ci ho vissuto un anno per studiare e mi sono gasato con la musica elettronica. Avevo un compagno di corso che faceva il dj a buoni livelli e mi ha introdotto in un sacco di situazioni che porto nel cuore (alla festa dell’etichetta Black Butter al Village di Shoredittch, a una finale di un contest tra dj al Ministry of Sound dove ho bevuto una bottiglia di tequila con Dj Skream che è una leggenda dell’underground elettronico londinese e partecipato al secret party per la posizione #1 di Billboard del singolo My Love di Route 94). Però è anche vero che, conoscendo gente, frequentando pub, giocando a calcio nella squadra dell’università sono entrato in contatto con l’Inghilterra più verace, più local rispetto a quella turistica-global nella quale solitamente ci si imbatte vivendo a Londra. Grazie a quell’Inghilterra local mi sono innamorato della musica di Beans On Toast (cantautore inglese decisamente indie) e ho riscoperto un sacco di musica inglese che avevo lasciato perdere fino all’anno prima (dagli ovvi Oasis ai Beatles passando per i the Verve e i Blur). Tra tutte quelle birre e le trasferte con la squadra a bordo di un pulmino un po’ scassato in giro per le campagne inglesi mi sentivo un po’ inglese anch’io e ascoltare britpop a manetta mi faceva abbastanza godere, lo ammetto. Basta con Londra se no vado avanti all’infinito.

Milano invece mi ha cresciuto come professionista della musica, decisamente in ottica global. E’ lì che ho scoperto la musica come lavoro. Ho conosciuto da vicino l’industria discografica ed editoriale, ho avuto modo di lavorare con tanti artisti e produttori e sicuramente mi ha fatto crescere tanto da un punto di vista di scrittura. Milano ti fa alzare l’asticella ogni volta che scrivi, ti mette in perenne competizione con te stesso perché è una città esigente, con gente capace, che ha sempre il coltello tra i denti. A me Milano piace, non sono uno che si immagina in una mansarda a scrivere con la chitarra sorseggiando un po’ di vino rosso. Io sono uno che si vuole svegliare tutte le mattine alle 8 e fare sempre qualcosa di nuovo. Quindi da quel punto di vista non rientro forse nello stereotipo del cantautore local. 

Durante la pandemia abbiamo vissuto su due piani: una vita quotidiana local, un problema molto global. Come lhai vissuta? E com’è stato tornare a fare un concerto?

La pandemia l’ho vissuta male come tutti. Mi spiace ma non sono uno di quelli che ci hanno trovato degli insegnamenti o altre robe, a me piaceva più la vita di prima e il mondo di prima. Del resto un po’ nostalgico sono. Parlando di local e global…ok, è bello riscoprire la propria città e il proprio quartiere perché si ha più tempo da dedicargli, ma se questo è dovuto al divieto di viaggiare diventa tutto brutto e lo percepisco male.

Tornare ad un concerto è stato normale sai, io a questa mega schifezza di pandemia non mi ci sono mai abituato. Poi la gente seduta non è la stessa cosa è ovvio, ma non ho avuto quella sensazione di stranezza che in tanti hanno percepito. Per me la normalità rimane l’unica vita possibile, la pandemia è solo un gigantesco incidente di percorso. 

Spotify e le altre piattaforme hanno reso tutto più global, penso anche solo alla global chartin cui i Maneskin sono schizzati al primo posto. Come vivi questo nuovo modo di fare musica?

È bellissimo che i Maneskin siano arrivati lassù. Dà un coraggio enorme a chi fa musica adesso, vedere che il mondo non è più così lontano. A me continua a piacere di più la festa della birra di paese rispetto alla Top 50 Global, ma quelli son problemi miei. 

Spotify ha dato nuovamente vita alla musica local, dandole la possibilità di esibirsi su un palcoscenico mondiale caricando una canzone su una piattaforma. Mi è successo, da autore, che una mia canzone, seppur in lingua italiana, sia finita in due playlist tedesche giganti. Non ci vedo particolari controindicazioni.

Come fa un artista a trovare il suo posto nel mondo oggi? 

Fa l’artista e non copia altri artisti di successo solo per saltare la fila. Si sbatte il più possibile, partendo dalle canzoni, cercando un’identità. Non voglio fare l’hater, ma vedo troppi artisti che cambiano suono, scrittura, immagine seguendo i movimenti dell’industria musicale. Possibile che abbiamo tutti le stesse cose da dire e le stesse idee nello stesso momento?