Daikon

Daikon: “C’è ancora spazio per il rock!” | Intervista

Crediamo che per il rock, inteso nel modo più generico possibile, ad oggi ci sia ancora spazio. Con questo biglietto da visita si presentano i Daikon, band della provincia di Como, cresciuta ascoltando i grandi dell’alt-rock moderno come Queens of the Stone Age e Libertines, ma che hanno masticato anche tanto punk californiano.

Dopo una (lunga) gestazione di circa due anni, i Daikon – Fil, El, Dem e Teo – hanno deciso di pubblicare, quasi contemporaneamente, tre singoli, Delta-9, Sick List e My Merciful Enemy così da far sentire subito la propria voce in un momento di riposo forzato dall’attività live. E’ proprio l’idea di ascoltare un concerto, quella che arriva ai primi ascolti dei brani, in cui si sente perfettamente che i Daikon sono una band cresciuta sui palchi ed in sala con gli strumenti in mano.

Avevamo tanti argomenti di cui parlare e molte domande da fare ad una band come i Daikon che ha scelto di andare “controcorrente” in un mercato come quello italiano che da diversi anni premia chi ha scelto di cantare nella propria lingua. Ecco cosa ci hanno risposto…

INTERVISTANDO I DAIKON

Parlateci della scelta controcorrente di scrive in inglese: cosa vi ha ispirato ed a quale pubblico vi rivolgete?

Per noi, in particolare in questo disco, il testo viaggia alla pari della musica. Non è una scelta stagna, nelle nostre vite cantiamo e probabilmente scriveremo nella nostra lingua e anche in mille altre. Ci piace l’idea di trasmettere un messaggio con ritmica e melodie, le parole comunque ci sono e fanno parte del nostro atto creativo, ma dipendono dalla loro musicabilità. Accompagnano la musica e prendono senso e respiro con essa.  L’inglese in questo processo è stato un’occasione di sperimentare e si adatta bene al suono che abbiamo in corpo. 

Per quanto riguarda il pubblico crediamo che per il “rock”, inteso nel modo più generico possibile, ad oggi ci sia ancora spazio. La nostra musica probabilmente si rivolge a chi è cresciuto con i pezzi più classici e storici di questo macro-genere, a cui però oggi serve un qualcosa in più, qualcosa che comprenda anche nuove sonorità, non necessariamente rock. Cerchiamo di trovare ciò che ha radici in noi e contemporaneamente negli anni che stiamo vivendo. Uno degli obiettivi è quello di provare a dare agli altri ed esprimerci senza tralasciare le sonorità più conosciute, quanto quelle più recenti e sperimentali. Il pubblico atteso quindi è piuttosto vario. Lavoriamo per cambiare ed evolverci in continuazione, così come ci aspettiamo accada negli altri, nelle persone che ci ascoltano.

Come mai avete scelto di fare uscire due singoli a così poca distanza?

Dopo tanto tempo, avendo i master delle dieci canzoni e le grafiche tra le mani, eravamo finalmente pronti a uscire: è però arrivato il COVID-19. Ci siamo fermati e abbiamo optato per iniziare a caricare qualche canzone online, che rappresentasse il nostro lavoro. Due più precisamente, molto diverse tra loro e che rispecchiano le principali sfumature sonore dell’album. La nostra voce è mancata per tanto tempo ed è bene farla sentire di nuovo in questo momento. Quando sarà possibile suonare live, potremo partire con ciò che più ci piace, portando sui palchi tutte le canzoni di questo disco, accompagnate da quelle più vecchie e anche qualcuna più nuova. 

Nei vostri brani, soprattutto in Delta-9 sento molto l’influenza del punk britannico di London Calling o i più recenti Libertines. Che importanza ha avuto questo genere nella vostra crescita musicale? 

Up the bracket, il punk britannico in generale, ma in parallelo i Ramones o il punk californiano sono stati colonna sonora della nostra adolescenza. Altri nomi da ricordare sono certo gli At the drive-in, i Queens of the stone Age, i Red Hot e i Primus. Questi gruppi e artisti hanno certamente lasciato in noi una certa attitudine, specialmente per quanto riguarda i live. E’ bello far sapere che in realtà ascoltiamo musica anche molto diversa da quella che suoniamo. Quello che si crea in sala prove esce dal nostro confronto, tra di noi e con il mondo esterno. E’ terapia di gruppo. Abbiamo sempre provato a tirare fuori una certa energia da noi stessi, che poi ai concerti cerchiamo di trasmettere. 

Chi tra voi è il più esperto di “chimica”, che ha scritto Delta-9? E cosa avete imparato da quelle notti, quando eravate giovani?

Delle notti insieme sono da ricordare anche i momenti grigi. Ci verrebbe da dire di non dimenticare soprattutto questi. Parlare e suonare insieme ci ha sempre portato a una dimensione di ricerca continua. Fuori dal letto, quando non siamo in sala prove, ci prendiamo in giro. Ridiamo. La formula Delta-9 la conosciamo tutti bene. “Ahi Maria”, come cantava Rino Gaetano. Ci piace la leggerezza che pesa, anche nei ricordi. Alle formule tecniche, il chimico è invece Teo, il chitarrista, che tra l’altro chimico lo è per davvero, non un caso. Nelle notti fredde dello studio di Olgelasca (New Mood Recording Studio)  ha mixato il nostro disco, cercando di valorizzare il lavoro che precedentemente avevamo fatto tutti e quattro insieme.

Quale pensate sia il nemico “misericordioso” della musica di oggi?

Noi stessi siamo il nostro nemico misericordioso. La misericordia sta nel fatto che quando combattiamo contro di noi, contro le nostre difficoltà, i nostri blocchi  e le nostre perplessità sappiamo darci la possibilità di sbagliare, di non guardare all’obiettivo, dando voce anche a ciò che va contro ai nostri apparenti vantaggi del momento. Questo discorso lo applichiamo anche alla musica. Che è  il modo con cui insieme cerchiamo di comunicare.

Il sistema dell’industria musicale, che a volte per dei giovani che fanno musica, va detto, sembra un nemico, è in realtà composto da persone, musicisti, grafici, video maker e artisti di tutti i generi.  E’ cercando le persone e il lavoro insieme che si trova la musica, il nemico così diventa misericordioso. In inglese la parola è ‘mercy’. Se qualcuno ricorda il processo del mercante di Venezia, questa è una parola fondamentale: è la pietà a cui viene chiamato Shylock, la capacità di vedere l’altro, la persona dietro al ruolo.

Avete iniziato a scrivere i brani che comporranno il vostro disco in uscita quasi due anni fa: come avete vissuto il processo compositivo e la crescita ad esso collegata? 

Questo tasto in parte è dolente, perché due anni per un disco di dieci tracce non sono certo pochi. E se da un lato spesso pensiamo che avremmo potuto e dovuto metterci molto meno, dall’altro siamo sicuri di non aver sprecato neanche una delle giornate o delle notti passate in studio a lavorarci sopra. La conquista reale è stata migliorare e imparare dai tanti errori commessi. In questi ultimi anni siamo cambiati tutti molto, portandoci dietro e abbandonando tanto, la lunga evoluzione di queste canzoni è l’impronta di questi anni, il nostro cucciolo d’elefante.  Ora ci sentiamo pronti a cambiare ancora, in un modo rinnovato, a portare in giro questo album e continuare a produrre in studio. 

Il titolo era  “Karate-Daikon”, mutato poi in: “To follow the Karate Daikon for three years- Songlines to the West”. Abbiamo inseguito questo disco e le tracce che abbiamo lasciato lungo il cammino sono queste canzoni. L’ovest è la frontiera del cambiamento, certo non trascureremo anche l’est, ma da qualche parte dobbiamo pur partire.

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