Psicomadre, la laica preghiera di Boetti | Intervista
Boetti, alter-ego di Damiano e Meti, è anche il cognome di un artista italiano all’epoca delle avanguardie come quella dell’arte povera, ma in realtà diventa per il duo di Pisa soltanto un pretesto per rappresentare lo sguardo che si ha sul mondo. A Boetti infatti non basta il dualismo parola-musica, ma si appropria delle arti visive per cercare di donare a chi è in ascolto la stessa sinestesia che si può provare ad assaporare un rock non edulcorato.
Chitarre anni ’90, tatuaggi, letteratura, murales, letteratura, quadri, arazzi queste e e altre le declinazioni della parola “osare” secondo il duo pisano, che racconta, sdraiato sul nostro lettino, l’anamnesi del loro primo singolo di esordio, Psicomadre, fuori dal 12 giugno.
Intervistando Boetti
Partiamo con le presentazioni: il vostro nome ha un forte legame con il mondo dell’arte figurativa, in particolare con l’omonimo artista Alighiero Boetti, a cui però dite di non rendervi omaggio. In che modo allora la visione dell’arte da parte del Boetti incontra il vostro modo personale di concepire la musica?
Una delle poche cose che sentiamo di avere in comune con Alighiero Boetti e con tutta l’Arte Povera in generale è la multimedialità, il fatto che ci si serva di più mezzi espressivi per comunicare. Nel nostro caso se ne contano già due in partenza, ben distinti e complementari: la parola e la musica. A questi si aggiungono poi le arti visive (appunto), il gusto street per murales e tatuaggi, la cultura orientale-persiana dei tappeti etc. L’input che dà il via alla scrittura dei pezzi proviene sempre dal confronto di realtà incidenti, non coincidenti.
L’arte povera prevede per la sua esecuzione l’utilizzo di materiale “povero” appunto, come una matita e un foglio di carta o del semplice tessuto di scarto. Quanto sentite dunque vicina l’idea di Grotowski di ridurre ai minimi termini, agli archetipi, in questo caso, la musica che componete?
Viviamo in un’epoca (o meglio post-epoca) in cui tutto è ridotto ai minimi termini, in cui regna un senso assoluto di immediatezza. Ma questa regola vale da sempre e per sempre quando si parla di composizione: il tempo che serve per finire una canzone può anche essere molto lungo, ma il 90% della sua buona riuscita te lo giochi tutto nel primo attimo in cui scoppia la scintilla. Quasi tutta la nostra musica viene dalla pancia. È con la pancia che proviamo a raccontare chi siamo, da dove veniamo, come ci siamo de-formati. L’idea di partenza nasce infatti voce e batteria, il resto lo si aggiunge mirando all’essenzialità: poche cose che arrivino nella loro pienezza.
Psicomadre, il vostro primo singolo, ha il suono di una preghiera alla rovescia, perché non rivolta questa volta alla madre protettrice dell’immaginario comune, bensì ad una figura che presenta in sé delle probabili insicurezze, delle paure insormontabili. Vi va di raccontarci la genesi di questa laica preghiera dei tempi moderni?
“Piscomadre” è venuta fuori in un periodo in cui siamo entrambi andati via dalla casa dei nostri genitori, un gesto con cui simbolicamente abbiamo tagliato una volta per tutte il cordone ombelicale. Allontanarsi dai propri familiari significa allontanarsi dai traumi che hai subito tramite loro, seppur involontariamente o “per amore” (così dicono), ma significa anche fare dei seri conti con te stesso. In quel momento, cioè quando ci siamo ritrovati davvero soli, ci è venuto automatico spingersi alla ricerca di un’idea, un’entità astratta e materna che ci proteggesse da paure, incertezze, disagi.
La copertina del vostro singolo presenta la scritta Psicomadre posta davanti un’immagine digitalizzata della Madonna. Quanto è forte in voi la necessità di sovvertire i canoni musicali e non di questi giorni?
Quando abbiamo scelto di fare musica abbiamo prima fatto pace con questa cosa: nessuno di noi è un genio, né tantomeno sovvertirà i canoni della musica, considerato che ad oggi tanto è già stato detto e fatto. L’unica cosa che vorremmo è stare alla larga dai cliché di genere che oggi vanno per la maggiore. È ovvio che il nostro linguaggio sia figlio dei gusti della generazione a cui apparteniamo: infatti l’obiettivo è riproporre alcune delle sonorità anni ’90 con cui siamo cresciuti. Crediamo però che non esista un genere musicale di riferimento che imponga atteggiamenti a sua volta di riferimento, ci piace anzi andare a pescare da ciò che è diverso da noi. Siamo per la contaminazione, per il contagio.
Una dualità che si affaccia alla specularità la vostra: Meti viene da un contesto più hardcore e Damiano da un mondo cantautorale. Come siete riusciti a far convergere gli antipodi che potrebbero separarvi?
Per prima cosa distribuendoci le zone di competenza del processo creativo: il nostro modo di comporre è una specie di “chiodo schiaccia chiodo” e non prevede sovrapposizioni, semmai delle continue integrazioni. Tendiamo a concentrarci più sul cosa fare e meno sul come farlo. Dopodiché abbiamo molte più cose in comune di quanto non sembri, in primis la voglia raccontare dei dolori e di farlo senza limitazioni espressive e/o artistiche. La musica è solo un mezzo di cui ci serviamo per trasmettere il nostro malessere, le nostre inquietudini.
Se potesse raccontarci il singolo attraverso un libro e un tatuaggio, quali sarebbero?
“Demian” di Herman Hesse / Qualsiasi tatuaggio, basta che sia fatto in un punto dove fa male.
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