Baschira

Baschira: “Sono un brigante a difesa dei più deboli” | Intervista

Baschira nasce da un’idea di Davide Cristiani, artista di origine bolognese, ad Amsterdam ormai da anni. E’ nei panni di Prospero Baschieri (Baschira), un brigante vissuto agli inizi dell’Ottocento che il chitarrista decide di portare in scena i protagonisti delle sue storie: gli ultimi, vittime di soprusi e ingiustizie sociali. Nell’autunno del 2019 Baschira, accompagnato da sette musicisti, lavora in studio, insieme a Mario da Silva di “RPM Studio”, al mixaggio dei sei brani che andranno a comporre il suo primo EP “Zdasdat”.

Nel gennaio del 2020, i brani sono masterizzati dall’ingegnere del suono e producer Pietro Rossi, al RedStone Productions di Amsterdam. A Marzo del 2020, esattamente qualche giorno prima dell’annuncio del lockdown, viene pubblicato il suo primo singolo “Il Biondo” che sarà seguito da “A Capo” in uscita il 15 Luglio per la BellaVez Records. Entrambi i singoli precedono L’ EP “Zdasdat”, in uscita questo autunno. I brani che compongono l’EP sono identificabili con il genere folk, gypsy jazz, acustico, popolare

Intervistando Baschira

Quanto di “Pat Garrett & Billy the Kid” c’è nel tuo A Capo? Raccontaci di più riguardo al tuo antieroe Baschira.

Non credo che Baschira fosse un criminale, è solo passato alla storia come tale. Ma la storia, come si sa, viene scritta dai vincitori. In questo caso da Napoleone, l’imperialista per eccellenza, andato al potere in seguito al fallimento della rivoluzione francese. Ci sono molti esempi in Italia di come i briganti fossero la risposta popolare ai soprusi del governante di turno. La storia di Baschira ha attirato la mia attenzione perché usava la violenza solo se costretto, non la usava contro gli indifesi. Pare, secondo una cronaca del tempo, che Baschira si arrabbiasse con i briganti che usavano la violenza quando non fosse necessario e che avesse l’abitudine di liberare i nemici catturati durante i combattimenti. La stessa cortesia non era riservata ai briganti che, in caso di cattura, venivano sempre giustiziati.

Quali artisti hanno influenzato la tua scrittura? 

Credo che se si parla di scrivere dei testi le mie influenze sono tutte italiane. Anche se ammiro molto Ed Sheeran e il suo modo di comporre. Mi piace molto come scriveva Mogol insieme a Battisti. Da piccolo lo ascoltavo nelle cassette di mio padre insieme a Dalla e De Andrè. Negli anni ’90 i pomeriggi passavano tra Neffa, i 99 Posse, Verdena e i Marlene Kuntz. Di norma  preferisco i musicisti che scrivono poco d’amore, o che lo fanno come fece Vasco con “Brava”. Da adolescente ascoltavo Frankie HI-NRG “Quelli che ben pensano” e mi chiedevo: chissà se anche “La morte dei miracoli”diventerà mainstream? Devo dire che ascolti immancabili sono stati Capossela e Gaber.

Penso che Mannarino e Caparezza scrivano dei testi molto provocatori e adoro il fantastico disco fatto da Gazzè, Fabi e Silvestri, “Il Padrone della festa”. Ultimamente una piacevole scoperta è stato Nicolò Carnesi. Anche il brano di Rancore presentato quest’anno a Sanremo mi è piaciuto molto. Mi piacciono molto gli aforismi, soprattutto quelli di origine popolare e la poesia ermetica, in particolare Ungaretti. Leggo volentieri Neruda e Garcia Lorca. 

Hai scritto i tuoi brani ad Amsterdam, ma l’italiano è rimasto un punto fermo nelle tue liriche. Che sensazione si ha scrivendo nella propria lingua quando ci si trova in un contesto completamente diverso? 

Spesso i cantautori italiani all’estero decidono di cantare in inglese così da poter essere capiti da un pubblico più ampio. Nel mio caso sarebbe stata una scelta fatta a scapito della musicalità e dell’espressività del testo. Io ho fatto una scelta forse controcorrente: Ho pensato che il messaggio che voglio trasmettere sia più importante della quantità di persone che lo capisca. Volevo esprimermi nel miglior modo a me possibile, quindi ho scelto la mia lingua d’origine, anche perché nonostante parli altre lingue, ho ancora troppo da imparare prima di avventurarmi nella scrittura di canzoni. Quando scrivo in italiano mi sento più a mio agio. Non escludo in futuro di scrivere qualcosa anche in dialetto, chissà..  

Cosa vuol dire “Zdasdat”, il nome del tuo EP in uscita in autunno? 

“Zdasdat” significa “Svegliati” in dialetto bolognese, la lingua parlata da Baschira. È un’esortazione ad aprire gli occhi e smettere di essere indifferenti alle sofferenze di chi ci sta intorno. 

A Capo ci invita a non smettere di credere: tu in cosa credi, fermamente? 

Credo nella possibilità di un futuro migliore di quello che vedo oggi. Credo nella parità tra esseri umani, in condizioni di vita perlomeno accettabili anche per quei tanti che oggi pagano il prezzo dell’avidità di pochi. Credo che si debba iniziare a rivedere le nostre priorità, perché un cambiamento ci sarà inevitabilmente, sta a noi decidere se subirlo o prenderne parte attivamente. 

Con che occhi guardi l’Italia oggi vivendo in un’altra nazione? 

Pensando all’Italia sono combattuto tra sensazioni contrastanti d’amore e d’odio, d’orgoglio e di vergogna, non ho ancora capito quale dei due avrà la meglio. Gaber ha descritto efficacemente questa sensazione. In ogni caso ho capito di essere orgoglioso delle mie origini e che in fondo, tutto il mondo è paese, le differenze culturali non cambiano la natura essenziale dell’essere umano. La nazione perfetta, come la persona perfetta, non esiste. 

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