Il 25 novembre, Quanto ha pubblicato il suo primo Ep “Ultrà” nella quale racconta le sue passioni tra calcio e musica.
Quanto è “una voce fuori campo che rivela cosa pensa” proprio quando guardi la schiena della vita che se ne va e ti lascia indietro, e invece c’è solo da andare avanti.
In questo progetto cantautorato pop e indie-rock s’incontrano allo stadio: luogo di incontri, emozioni intense, grida liberatorie, gioie, dolori, amori iniziati e finiti, di partite e concerti, un luogo in cui la folla diventa un’unica grande voce.
Di me stesso, di Matteo? C’è davvero tanto: di me, del mio passato, del posto in cui vivo, delle cose che leggo e che ascolto.
La storia del nome è carina. Quando ho deciso di partire con un’avventura musicale in solitaria, il mio nome e il mio cognome non mi suonavano bene. C’era qualcosa che esteticamente non mi quadrava. Quindi sono partito alla ricerca di un nome d’arte e mi sono dato delle regole: 1) doveva contenere la lettera Q; 2) doveva essere una parola sola e 3) avere più significati. Stavo leggendo un saggio di Stephen Hawking e il nome mi è comparso davanti agli occhi. È andata così.
Assolutamente. C’è sempre qualche luogo comune intorno alle subculture di ogni genere. Il fatto è che la faccenda è molto più complessa di come tendono a parlarne i media generalisti (cioè ormai quasi tutti). Chi vive fuori dagli schemi rischia sempre di essere preso in mezzo: pensa a quante se ne dicono di Sferaebbasta per i suoi testi; ora, secondo questo fine ragionamento, Bukowski avrebbe dovuto essere uno stupratore seriale perché nei suoi racconti parlava di “stupri”? Non c’è gusto in Italia a essere intelligenti.
Un aneddoto sugli Ultrà. Un’amica mi ha raccontato di essere stata per anni nella schiera di tifosi più importante di una squadra di calcio italiana e, durante la gravidanza, i capi ultrà le facevano praticamente da guardie del corpo. Il punto è che nessuno si cura di andare a vedere le storie umane che stanno dietro alle singole persone, ma è più facile additare un intero gruppo perché non ci piace come si vestono, quello che pensano e il modo in cui vivono.
Che noia la superficialità.
Poche domande sono più difficili di questa per me. Avrei preferito rispondere a una domanda di fisica quantistica eheh Ho un rapporto difficile con la mia voce.
Non sono mai contento delle mie performance vocali e in studio mi sembra di non riuscire mai a trasmettere quello che sento fino in fondo. “Ultrà” è un esempio, in questo senso: mi piace il mio timbro, ma mi sembra che l’energia non riesca ad uscire tutta, che sia intrappolata lì da qualche parte. Dal vivo o in sala prove è tutta un’altra storia.
Comunque, per rispondere alla domanda: credo che la voce sia un altro strumento al servizio della canzone e che debba rispondere a quello che comanda la canzone.
Senza dubbio la seconda.
Probabilmente perché avevano soltanto quello da dire. Oppure è il caso, non lo so. Gli artisti a breve scadenza mi fanno un po’ pena. Perché poi la maggior parte delle volte la colpa non è nemmeno loro.
Giovanna è una donna che ha capito delle cose che io non ho capito. E meno male che c’è lei. (Se Giovanna Dark dovesse trovare in giro Giovanna Hardcore penso potrebbero diventare una bella coppia; o menarsi, non lo so).
Grazie.
L’ho scritta una mattina presto d’estate, mentre lavoravo in un distributore di benzina.
Credo che “Oropa Bagni” sia, da un punto di vista testuale, la cosa che mi è riuscita meglio in questo primo blocco di brani che ho scritto. Sarà che c’è molto di personale, ma anche di generazionale. Volevo scrivere qualcosa che riguardasse il posto in cui sono cresciuto e alla fine ho capito che stavo scrivendo una cosa che poteva riguardare tanti altri posti di provincia in Italia. Forse alcuni riferimenti sono un po’ oscuri per le ragazze e i ragazzi più giovani, ma magari può essere un’occasione per scoprire cos’è successo a Genova o anche solo cosa fosse l’Angelo Azzurro (quello non bevetelo, però).
Sono tutte domande molto belle che mettono in crisi la mia già debole capacità di sintesi.
Io sono un feroce divoratore di musica: ascoltavo le cassette quand’ero bambino; poi i cd (che continuo ancora a comprare); poi i dischi in vinile (che continuo ancora a comprare, maledizione); ho fatto l’abbonamento a Spotify il giorno in cui è uscito in Italia e in questi giorni sto provando Tidal. Insomma, ne sono cambiate di cose, ma non c’è bisogno del mio parere per certificare questo cambiamento.
Io ascolto musica per amore della musica, per divertimento e per lavoro; ma chi la ascolta in modo più passivo e, giustamente, disinteressato forse oggi ha meno occasione di innamorarsi di un disco o di un artista. Non lo so, ma mi sembra che stia accadendo. Non voglio dire cose tipo “era meglio prima” che poi faccio la figura del vecchio e non mi piace quel tipo di discorso.
C’è una serie che si chiama “High Fidelity” in cui la protagonista (la figlia di Lisa Bonnet e Lenny Kravitz) è titolare di un negozio di dischi a New York: ecco, nella serie viene raccontato un bel modo di approcciarsi alla musica, in cui la tecnologia, i supporti e i dispositivi sono al servizio della passione. Credo sia sempre stata e sia ancora questa la chiave.
Fare le cassettine era un modo per raccontare una storia, per dare un messaggio: oggi lo possiamo ancora fare (non sulle cassette perché si sente di merda), ma l’importante è continuare a farlo. Fate le vostre playlist, metteteci dentro la musica che vi piace e le vostre emozioni, perché la musica che ascoltiamo può dire tantissimo di noi ed è questa la cosa migliore che ci ha dato il pop in tutte le sue forme negli ultimi 70 anni. Penso sarebbe un terribile spreco se la musica diventasse soltanto un debole sottofondo delle nostre vite incasinate.
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