Quello che so | Indie Tales
Mi chiedo: bisogna davvero essere “vecchi” per pensare con tenerezza al proprio passato?
Non in modo nostalgico, ma più una bella passeggiata nel viale dei ricordi.
Del tipo: passi davanti ad una pasticceria e bum, riaffiorano alla mente le mani callose di tua nonna che impasta la frolla per fare la sua imbattibile crostata.
Non mi sento affatto vecchio, ma noto che il tempo scorre dal fatto che il mio modo di guardare indietro non è più lo stesso. Anche se la mia infanzia non è stata tutta rose e fiori, ultimamente riesco a ricordare solo le cose belle. Il profumo di rose nel nostro giardino, i vestiti di mia madre, le corse impazzite.
Persino le ginocchia sbucciate e i pianti mi sembrano poetici.
Il passato ci riguarda, ci definisce e ci nobilita, se gliene diamo la possibilità.
Passiamo una vita a cercare di sfuggirgli, come se ci impedisse di guardare avanti. Niente di più sbagliato. Dovremmo imparare a sfogliare i ricordi senza eccessivo trasporto o nostalgia, ma scrutarli come le pagine di un libro che abbiamo già letto, ma che ogni tanto ci piace riaprire.
Il mio passato è ciò che sono, è ciò che so. Non so se capita a tutti, ma arriva prima o poi quel momento nella vita in cui senti di voler trascrivere ciò che hai vissuto, dare in qualche modo importanza a quello che è stato.
Non rinnego nulla, rifarei tutto quanto da capo. Le delusioni, gli abbracci, i momenti in famiglia, la scuola, l’università, i duecento lavori. Il tempo che ho dato e tolto alle mie passioni.
A volte mi sorprendo a ricordare di quando ero bambino. Magari sono in macchina o in fila al supermercato e mi vengono d’improvviso alla mente immagini ben precise, momenti a cui non ho mai pensato in tutta la mia vita.
Ieri ad esempio ero al parco a portare giù il cane e in un attimo ero lì, nel roseto dei miei nonni a cercare tesori nascosti. Ricordo i dettagli di quei momenti, come se fosse successo ieri. Tutto sporco di terra, i riccioli biondi e le mani sempre indaffarate. Ero talmente curioso e indaffarato che se mia madre non mi chiamava per dirmi “è pronto in tavola” probabilmente non avrei perso tempo a mangiare.
Mi sono sempre chiesto come mai gli anziani (non che mi senta ancora uno di loro, eh) perdano colpi nel tempo, magari faticano a ricordarsi ciò che hanno mangiato a colazione, ma i ricordi d’infanzia, quelli non svaniscono mai.
Ricordo che mio nonno da piccolo mi metteva sulle sue ginocchia la sera dopo aver cenato e mi riempiva la testa di racconti. Mi parlava di com’era la vita su al nord, in quel paesino sperduto tra le montagne senza macchine, locali e turisti.
Ricordava tutto nei dettagli, narrava episodi interi senza tentennare, tutti d’un fiato, per filo e per segno. Una parte di me pensava che fossero un tantino romanzati, dai, era impossibile che ricordasse così bene cose accadute cinquant’anni prima. Invece oggi lo capisco, anch’io se avessi un nipote, sarei in grado di raccontargli di quando io e i miei fratelli facevamo i pirati, cosa ci urlavamo, le nostre mappe nascoste in chissà quale anfratto del giardino.
Da ragazzo non ci pensavo mai, e anche quando mi sforzavo di ricordare non mi veniva in mente molto. Probabilmente ero troppo impegnato a costruirmi un futuro.
Come se le tue basi e le tue radici possano ostacolare chi sei o chi diventerai.
Oggi so che senza quelle fondamenta non sarei chi sono. E me le tengo strette.
Racconto liberamente ispirato al brano “Quello che so” di Martix