La mezzanotte non è mai stata così buia: Il ritorno di Flanagan con “Midnight Mass” | Serie Tv
Midnight Mass è il ritorno di Mike Flanagan. È uscito il 24 di Settembre, con l’ormai inconfondibile “N” rossa a certificare la produzione Netflix, e si conferma subito come una miniserie di grandissimo spessore.
Il regista statunitense continua a sperimentare e a scoprire, conservando la qualità che più di tutte distingue i grandi artisti dagli artigiani del genere: la curiosità.
Mike Flanagan ormai si è legato a doppia mandata al genere horror, e da anni ormai continua a esplorarlo e a scavare tra le macerie e i reperti che incontra lungo il suo percorso. Dalle linee temporali sfalsate di Oculus (2013) alla morbida eleganza patinata de Il gioco di Gerald (2017), fino ad arrivare ai suoi lavori con le miniserie, Flanagan ha sempre cambiato. E allo stesso tempo ha mantenuto tutto sempre lo stesso.
Perché una casa – o un palazzo, nel caso di Flanagan – si costruisce dalle fondamenta, e il regista statunitense le sue le ha scolpite nella sua testa come un mantra.
A partire dagli attori. Intesi nel vero senso della parola: in Midnight Mass – come in tutti i suoi altri lavori – i corpi fatti di carne, di sangue e di lacrime. Flanagan da anni si circonda solo di persone che sono disposte a dargli tutto e a fare tutto quello che chiede: quando guardiamo uno dei suoi lavori le facce sono sempre le stesse. Facce che ci fanno sentire a casa, e forse fanno sentire a casa anche lo stesso regista, perché per scendere negli abissi della mente umana ha bisogno di compagni fidati, di persone che sanno cosa vuol dire recitare l’orrore, la paura, la disperazione e il sollievo.
E proprio vedendo quelle stesse facce che si avvicendano sullo schermo della nostra televisione, del nostro tablet o del nostro smarphone, ci dobbiamo fermare un istante a pensare alle fondamenta del palazzo di Mike Flanagan.
Perché partendo da tonalità patinate e inquadrature meravigliose, il regista statunitense ci dice una cosa: gli attori sono gli stessi, il genere è lo stesso. Ma come vedrete con lo scorrere delle puntate, con lo scorrere dei film e delle serie che il suo lavoro cambia di volta in volta. E Midnight Mass non fa eccezione.
Cambia tutto perché l’horror che il regista ama così tanto è un horror che scorre sulla nostra pelle, non si incaglia. Scorre e ci ricopre. Perché è un horror dolce, non è un mostro dietro una porta pronto a saltarci addosso, ma un ricordo che solletica la memoria, e a quella memoria si avvinghia a poco a poco.
C’è spazio per la tenerezza nell’orrore di Midnight Mass, una tenerezza sconfinata, addolcita ancora di più dai colori patinati della regia. Ma la tenerezza, come la paura, nasce da un trauma. E Flanagan parte da quel trauma, lo studia, lo accarezza e lo lascia crescere.
Perché la reazione più umana davanti all’orrore è quella di fermarsi a guardare. Magari con le mani sul viso, per coprire gli occhi. Ma con piccole, luminose fessure tra le dita, per sbirciare. Ed è lì che troverete Mike Flanagan.
Proprio tra quelle fessure.
Lo specchio del piccolo mondo di Midnight Mass
Perché anche questa volta, con la sua miniserie di 7 puntate, Flanagan ha deciso di puntare in alto. Le sue non sono storie che intrattengono e basta, sono molto di più.
Tutto in Midnight Mass ruota intorno a una cosa sola: la morte.
La morte di una ragazza sul bordo della strada, con il protagonista, Riley, che guarda il suo cadavere illuminato dalle luci dell’ambulanza. La morte che galleggia sulle rive di un piccolo isolotto in mezzo al nulla, il luogo in cui Riley è costretto a tornare, dopo essere stato condannato: omicidio per guida in stato di ebrezza.
Un protagonista che per anni viene perseguitato dalla ragazza che ha ucciso. Dal suo fantasma, dal suo ricordo. Un protagonista che prega di fronte al suo peccato, prega davanti al cadavere della sua vittima. Prega di fronte alla morte.
E Midnight Mass nella prima scena ci sta già raccontando tutto: non c’è spazio per nulla, neanche per la religione di fronte alla morte. È semplicemente la fine di tutto.
E quando Riley torna nella sua piccola isola, dove tutto ruota intorno a una piccola chiesa alla fine di una piccola strada, sente di essere perduto. Perché quella fede lui l’ha persa quella notte di tanti anni prima, quando pregava un Dio che non gli ha mai risposto, mentre la morte si materializzava di fronte a lui.
A nulla serve la fede dei genitori, a nulla serve un nuovo parroco che arriva nella piccola chiesa dell’isola, a nulla serve il ritorno di una vecchia fiamma. Riley non sa più chi è. Vede quella morte ogni giorno negli occhi del fantasma della ragazza. E comincia a vederla anche nei suoi, di occhi.
In una piccola isola, con una piccola chiesa alla fine di una piccola strada, Riley però comincia a osservare il nuovo parroco. Osserva la natura selvaggia che circonda quel piccolo villaggio di pescatori. E osserva anche i cadaveri degli animali che la popolazione trova in riva al mare. Centinaia di cadaveri. Cadaveri di gatti, però. Non di pesci.
E Riley comincia a vedere un grande male in quella piccola isola. Un male che Flanagan dipinge benissimo tra i suoi colori patinati. Un male invisibile che però Riley percepisce con chiarezza, perché lui quel male lo conosce meglio di tutti gli altri. Un male che cresce, e che trascinerà Midnight Mass in un vortice di orrore da cui non uscirà più nessuno, come nessuno uscirà più da quell’isola.
Una prigione di sabbia e acqua, che Flanagan ha allestito con una precisione impressionante.
Flanagan, la paura che diventa un credo religioso
I temi utilizzati sono familiari a tutti gli appassionati del genere: una comunità isolata, un male che colpisce tutti gli abitanti, una fede religiosa che diventa fanatismo. Il regista statunitense non inventa niente. Ma c’è una cosa che lo differenzia da tutti gli altri.
Quella dolcezza a cui accennavamo prima. Una carezza sulla pelle nuda, una delicatezza fuori dal comune. Perché l’orrore arriva sottopelle proprio quando i mostri vengono da dentro, come in The Haunting of Hill House. Il dramma di una madre che perde un bambino e si accarezza la pancia, guardando il mare sconfinato. Il ricordo delle luci blu e rosse dell’ambulanza che illuminano il corpo di una ragazzina.
Flanagan si prende il suo tempo per coccolare i suoi personaggi. Per fare in modo che la sua macchina da presa entri dentro di loro. Perché se il mostro viene da fuori, la paura comincia quando i personaggi cominciano non a temerlo, ma ad accettarlo. Per diventare mostri a loro volta.
E la domanda che si fa Flanagan, e che noi rigiriamo a voi, è la seguente: dove comincia la paura?
Comincia quando la vediamo di fronte a noi? Magari in autostrada, quando dalle macchine distrutte si intravedono macchie di sangue?
O comincia quando ci rendiamo conto che da quelle lamiere insanguinate non riusciamo a distogliere lo sguardo?
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