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Squid Game: la ricetta perfetta tra ricercatezza e mainstream | Tv Series

Squid Game è la serie del momento. Tutti ne parlano, tutti ci scrivono sopra articoli e fanno video. “Le curiosità”, “Le cose che non avete notato”, le interpretazioni.

Chilometri di pagine, ore di video. Decine di esperti – e non – che parlano di una storia rivoluzionaria, banale, visionaria, scontata. E chi più ne ha più ne metta.

Tutto, in questo periodo, ruota intorno alla miniserie diretta dal regista Hwang Dong-hyuk. Che ha il merito di affrontare argomenti caldissimi e molto attuali con uno stile fortemente sudcoreano. Il successo che ne deriva è solo l’ultimo anello di un processo che è partito ormai tanti anni fa. Iniziato con Gangnam style (alzi la mano chi ancora, chiudendo gli occhi, sente la voce nasale di PSY mentre balla la coreografia più popolare degli ultimi 20 anni), questo processo di denuncia è arrivato fino ai giorni nostri.

La musica spensierata, quasi demenziale di PSY, infatti, nasconde una critica feroce a una società che stava cambiando. Gangnam è la Beverly Hills di Seul, un quartiere d’elite dove i personaggi più ricchi del paese si ritrovano in posti lussuosi e rimangono semplicemente lì. Senza nulla da fare. E, cosa ancora più grave, senza nulla da dire.

Secondo le ultime previsioni economiche effettuate da Business Insider, la serie ha avuto un costo di produzione di 21 milioni di dollari, ma a già a poche settimane dal suo rilascio su Netflix, ha totalizzato 900 milioni e oltre di profitti.

Perché la Corea del Sud, paese capitalistico e cattolico, a seguito del secondo dopoguerra ha avuto un’impennata economica inimmaginabile. Un’impennata che però ha portato – come in Occidente – a una crepa insanabile nella società asiatica. Da una parte la classe ricca, luminosa e opulenta di Gangnam. Dall’altra i quartieri distrutti dalla povertà di persone piene di debiti. Dimenticate. Escluse. Come i bambini più cicciottelli che vengono scelti per ultimi quando si gioca a palla avvelenata o – perché no – al tiro alla fune, ammesso che in qualche cortile di qualche scuola ci sia ancora una fune da usare.

Gli ultimi che vengono dipinti con incredibile precisione da un altro prodotto sudcoreano diventato famoso in tutto il mondo: Parasite di Bong Joon Ho. Che dipinge una realtà ancora più miserabile.

Siamo arrivati al limite. E la produzione di Squid Game ha capito il momento. E l’ha fatto proprio con personaggi, con un’estetica e con una storia che, partendo dalla cultura sudcoreana, sono diventati universali.

Le impronte culturali di Squid Game: la cultura asiatica che irrompe in Occidente

Potremmo passare ore a elencare tutti quei tratti che ci hanno sempre colpito dell’Asia. Gli anime, i manga, i cosplayer, il K-pop. I più catastrofisti direbbero che è partita la prima ondata di invasioni, la più importante, quella che i mongoli di Gengis-Khan centinaia di anni fa non erano riusciti a portare a termine. Una vera e propria invasione culturale, che punta a sommergere quella americana.

Squid Game sa cosa piace al mondo occidentale, e manipola i nostri gusti con un’attenzione e con un’abilità fuori dal comune. Non è un caso che il primo gioco degli Squid Game sia famosissimo anche in Occidente. Quel 1,2,3 stella che da decenni i bambini di tutta Europa – e non solo – continuano a fare.

E non è un caso che l’ultimo gioco della serie tv sia invece tipicamente coreano. Squid Game ci ha preso per mano, all’inizio gentilmente, per poi trascinarci a strattoni verso una realtà tutta orientale in cui ci siamo sentiti – incredibilmente – a casa.

Ma come hanno fatto?

Semplice. Partendo da una comfort zone – 1,2,3 stella, l’impostazione generale di una storia che abbiamo visto tantissime altre volte in Hunger Games, in Hostel, in Saw – e da valori molto popolari. Ormai potremmo definirli valori “pop”. L’insoddisfazione verso una società capitalistica che trascura l’individuo, una situazione in cui trovare lavoro è sempre più difficile, i pregiudizi e il disprezzo del mondo per chi non ce la fa.

Senza dimenticare la violenza e il sangue a cui tutti ormai siamo abituati. Fa davvero così effetto, ormai, una testa spappolata o un braccio strappato?

Da Rambo a La Casa di Sam Raimi, dalle cascate rosse di Shining agli zombie purulenti di The Walking Dead.  Lo splatter è diventato un linguaggio di uso comune ormai, e la produzione di Squid Game lo sa bene.

L’Asia, vero e proprio baluardo di una violenza più sottile – e molto più elegante – legata alla psicologia dei suoi protagonisti, si è adattata. Si appropria di un altro linguaggio e lo trasporta nelle sue storie. Basti pensare alla presenza della neve, alla fine della storia, quando il protagonista si confronta con l’ideatore dei giochi.

Una neve candida. Bianca. Incorruttibile. Come la neve di Parasite alla fine del film. Una neve che lava via il sangue, le violenze. E lascia tutto piatto, e incontaminato. Una simbologia che in Asia tutti conoscono: la neve rappresenta la purificazione del protagonista, che cresce e diventa migliore grazie alla storia che ha vissuto – e che noi abbiamo visto.

Squid Game ci ha preso per mano, e ci ha portato in un universo costellato di simbologie e linguaggi tipicamente coreani, senza che neanche ce ne accorgessimo. Non è forse questo lo scopo ultimo dei prodotti che vediamo?

I valori di Squid Game sono universali, e ci dicono molto di più di quello che sembra

La paura di non arrivare a fine mese è uno spettro che tutti conosciamo. Magari non lo viviamo sulla nostra pelle, ma sappiamo cos’è.  E Squid Game si appropria di questa paura, fa leva su di essa per sollevare un interrogativo: una società che flagella l’individuo disperato, sa cosa sta creando? Sa che la disperazione crea violenza?

E che basta un impulso – Joker nel Batman di Nolan diceva che la follia è come la forza di gravità: basta, per l’appunto, una piccola spinta – per scatenare anni e anni di umiliazioni, e di punizioni?

Squid Game li scatena in un’arena coloratissima. Una violenza cruda – il sangue fin dal primo gioco è protagonista indiscusso – contrapposta ai giochi per bambini. Qui risiede l’ingrediente segreto della serie. Un contrasto estetico dall’impatto devastante. Come Kubrick in Arancia Meccanica associa le scene di violenza alla musica classica, qui Hwang Dong-hyuk prende cose innocenti, come dolcetti di caramello, biglie di vetro e le contestualizza nella disperazione dell’uomo moderno, che con quei giochi ci è cresciuto.

E i giochi per bambini diventano pretesti perfetti, perché con la loro innocenza – sporcata dal sangue di una vera e propria lotta per la sopravvivenza – mostrano una cosa, forse la cosa che la produzione di Squid Game voleva evidenziare. E forse non solo Squid Game con i suoi giochi. Forse anche la desolazione di Parasite, e anche la musica demenziale di Gangnam style.

Volevano tutti, in modi diversi, raccontare una cosa. Raccontarla con le modalità tipiche della Corea del Sud. Forse perché il loro dolore e il loro disagio sono diventati talmente pressanti che i produttori e gli sceneggiatori hanno sentito l’esigenza di raccontare una storia che era la loro storia.

Cambiano gli approcci, le atmosfere, cambia anche la musica. Ma non cambia la sostanza: tutte queste opere raccontano la disfatta di una società dove – parola a uno dei protagonisti – i poveri sono infelici, è vero. Ma lo sono anche i ricchi.

E questo forse descrive perfettamente la situazione di oggi. Che si dimostri attraverso la violenza dei giochi per bambini, o attraverso la povertà di una famiglia, o addirittura attraverso i colori sgargianti e le musiche assurde di un rapper paffutello, la lezione che arriva da Est è questa: ogni singolo gradino di questa società è intriso di infelicità.