Erricorù: “Respirare per ritrovare sé stessi nonostante tutto” | Intervista
Erricorù, chitarrista e cantautore partenopeo, entra nel panorama discografico con un EP digitale di cinque brani dal titolo “Costruzioni Terapeutiche Vol.1”, scegliendo come brano d’esordio “Respirare” accompagnato da un videoclip girato tra Ischia e Napoli.
E’ un artigiano della musica Erricorù, porta con sé la sua storia di architetto nel pensare armonie e melodie come una serie di razionali equilibri, ma conserva un’intensa introspezione nello scavarsi dentro, interrogando le sue emozioni alla ricerca della parola evocativa.
E’ così che la canzone viene composta, alzata “come un palazzo”, pezzo dopo pezzo, “Quella canzone che si trasforma in un flusso sonoro che si impasta e mi insegna cos’è il mondo”, una costruzione terapeutica appunto che indaga il profondo dell’io rispettando le geometrie musicali.
Il pezzo di punta dell’EP per orecchiabilità e trasporto, si muove tra tempi decisi e netti, a rimarcare un testo incentrato sul ritrovare sé stessi nonostante tutto e tutti.
Nel video s’intercetta la storia di un uomo e due donne che sono legati ma non riescono ad amare. Le relazioni tra i personaggi vivono un senso di continuità che intreccia passato, presente e futuro attraverso un gesto, uno sguardo o attraverso il mare stesso, che nelle sue infinite trasformazioni rende corpo unico isole e terre lontane.
Intervistando Erricorù
Costruzioni Terapeutiche Vol.1 è il tuo EP d’esordio, ma lascia prevedere che non rimarrà un lavoro isolato: raccontaci di questo disco e tutto ciò che significa per te.
Ho iniziato a suonare e scrivere canzoni poco più che adolescente, verso la fine degli anni 90. E da allora ho accumulato testi, melodie e armonie che hanno assunto poco alla volta la forma di canzoni. Costruzioni Terapeutiche vol. 1 è il primo volume di una personale antologia.
Un’antologia di brani presenti solo nella mia testa e venuta fuori dallo scontrarsi tra la parte sinistra e quella destra del mio cervello.
Scrivere canzoni come costruire edifici (il mio primo lavoro): scegliere con cura le note, il contrappunto delle voci, le parti degli strumenti, le cadenze armoniche. Scrivere canzoni come una seduta di terapia: in cui le parole escono dall’inconscio, nella lingua in cui trovano sfogo, per giustapposizione di sentimenti, per sciogliere nodi.
No, non rimarrà un lavoro isolato, è parte di un trittico che farò uscire nei prossimi anni.
Hai fatto a lungo parte di una band: cosa si prova ad andare “da soli”, mettendoci corpo ed anima come Erricorù?
A dire il vero ho fatto parte di più band, da sempre. La mia dimensione ideale è corale, mi piace l’idea di “risuonare assieme”, di tenere le orecchie aperte per sentire cosa fa l’altra persona, per divertirsi insieme, suonando come un’unica voce. Però talvolta un gruppo può essere anche una sorta di rifugio.
Allora ho avuto un’urgenza: è diventato necessario prendere coraggio, metterci la faccia e lasciare andare al pubblico i brani che ho scritto nel tempo, dicendo semplicemente “eccomi”.
Per me è stato come diventare consapevole di me stesso, della mia armatura ma anche delle mie fragilità.
“Respirare” sembra trarre linfa vitale dalle contraddizioni, dagli opposti. Come concili questi mondi ed emozioni all’interno della tua musica?
“Respirare” è un brano in cui le contraddizioni portano a quella consapevolezza di cui dicevo prima. È l’integrazione di ombra e luce che genera la vita, il respiro reale. Tempo fa queste contraddizioni le chiudevo in compartimenti stagni. Fino a quando mi hanno detto: “ma perché non metti tutto a sistema?”.
Sai la parola sistema è molto importante per me. È la struttura che tiene assieme il tutto. E quella struttura siamo noi stessi. Musicalmente ho provato varie strade, ho suonato e studiato vari generi, finché ho deciso che, oltra a metterci la faccia, non era più il tempo e non era più giusto tenere separata l’anima rock dalla melodia, la chitarra dalla voce.
Le sonorità grunge sono predominanti in “Respirare” quindi ci sorge spontanea una domanda: sei più influenzato dalle fondamenta di Seattle o dal rock alternativo italiano?
Ti racconto un episodio. Sono cresciuto leggendo assiduamente tutte le riveste cartacee musicali più importanti, ritenendo da sempre imprescindibile il loro ruolo per scoprire nuove sonorità e nuovi artisti. Ricordo una copertina dell’allora inserto di Repubblica “Musica, Rock e altro” con un paesaggio americano all’aperto con le tinte che viravano sul blu.
Era il numero dedicato all’uscita di Yield dei Pearl Jam. Comprai quell’album e fu un’illuminazione: le chitarre di Brain of J. mi straziano ancora e lo ritengo il miglior esempio di come si fa un album rock, di giusto equilibrio tra pezzi sostenuti e ballate dolci.
Poi è arrivato tutto il resto, il grunge di Seattle, i Radiohead, il post-rock, gli italiani della vecchia guardia (Litfiba, CSI) ed indubbiamente i Verdena e gli Afterhours.
Napoli è la patria della melodia italiana: come vivi il rapporto con la tua città e tutte le contaminazioni in essa presenti?
Mentre molti miei coetanei sono andati via, ho scelto invece di restare, proprio per quelle contaminazioni, quello scontro continuo tra alto e basso, tra poetico e volgare che permea la città. Sono grato alla musica tradizionale e sono grato alla scena napoletana, soprattutto a quella degli anni 70, Pino Daniele e Napoli Centrale su tutti: sono i classici, quelli da cui non puoi prescindere, da cui si parte per poter continuare a scrivere e a cercare una melodia perfetta che probabilmente non arriverà mai.
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