Dopo quattro anni di scrittura, Deut chiude il suo primo album “From the other Hemisphere”: una raccolta di dieci pezzi in forma di diario personale nel quale continua il racconto sulle tematiche a lui care: il mondo onirico, l’intimità, lo sfruttamento emotivo, la società del lavoro, il futuro delle generazioni e la morte.
Non sempre riusciamo a connetterci con il nostro inconscio, che spesso ci lancia segnali inequivocabili e Deut, con la sua delicatezza musicale che lo contraddistingue, riesce a raccontarci la contraddizione e le paure che formano il genere umano e che, attraverso la musica, riusciamo ad esorcizzare.
“From the other Hemisphere”, vicino stilisticamente e concepito come prolungamento dell’EP “A running start”, presenta più sfumature e influenze sonore, mantenendo i toni malinconici e scanzonati insieme alla forma di canto “dialogato” dove anche i pezzi più forti ritmicamente possano sembrare sussurrati.
L’intento che accomuna i due lavori è quello di cercare una prossimità con l’ascoltatore con delicatezza, ma c’è comunque una tensione inesplosa di fondo, che preme quasi con violenza rimanendo sopita e nascosta nella nevrosi di alcune composizioni.
Sono cambiate molte cose, per tutti credo. Chi ha voluto (e potuto) ha colto anche degli aspetti positivi facendo tesoro dell’improvviso freno a mano che è stato tirato. Ognuno ha davvero la sua storia personale; io ad esempio nelle varie quarantene, oltre ad aver sofferto, ho curato le cose che mi piacciono, scritto una cinquantina di brani, cucinato e disegnato tantissimo. Ho giocato molto con strumenti e colori, passando tanto tempo a cercare di dare forma a ciò che stavo vivendo. Tanta e troppa introspezione, ma a distanza di tempo sto raccogliendo alcuni frutti.
Credo di aver fatto questa scelta anni fa, quando abbandonai il punk, il grunge e il metal. Esperienze in cui la voce può uscire fuori con un certo peso, urtare e graffiare. Ho scoperto che potevo raccontare cose terribili con melodie dolci, un gioco di forti contrasti. Io li amo, ne siamo pieni tutti. I testi smuovono me per primo, mi scuotono con il loro peso, li scrivo così per sentirli ogni volta che li canto. Nicola Arigliano nell’incipit di un disco live si scagliava contro gli “urlatori” moderni, Antony Hegarty canta spesso con questo contrasto… mi lascio trasportare da queste lezioni. Sui suoni ho lavorato molto con il produttore, David Campanini, che ha saputo dare corpo alle precisissime, seppur strampalate, idee che avevo.
Forse avevo nove o dieci anni. Mio padre ci addormentava cantando i classici della musica leggera italiana. Io cantavo sopra gli accordi parole in un’altra lingua e mi dicevo che un giorno è così che avrei cantato. Sono sempre stato affascinato dalle lingue e ho cominciato presto a scrivere in inglese. Questo trucco mi permette ancora oggi di accedere a parti di me che non conosco, l’altro emisfero appunto, al quale è dedicato questo lavoro.
Il progressive rock mi ha rapito vent’anni fa, così barocco, sperimentale, complesso e stratificato che non ho saputo abbandonarlo. Pur avendo preso tutt’altra strada credo che dentro alcuni miei brani se ne senta ancora l’eco.
Diciamo che scrivo principalmente di getto. A volte, come spesso dico, mi capita di sentire un intero arrangiamento in testa e di doverlo buttare giù registrando frettolosamente le parti perché ho sempre odiato (ahimè) lo studio della musica e non so trascriverle su carta. Creo molto e scarto molto, quello che scelgo è sempre la punta di un iceberg, perché non mi riesce bene tutto. A volte elaboro un loop che suono di continuo finché non si libera in un ritornello, alcune canzoni le lascio riposare anche anni, altri brani invece escono in poco tempo nella loro forma finita.
Sta quasi diventando una paura collettiva, più grande di ogni paura personale. Più che paura (temporanea) io parlerei di angoscia (a lungo termine). Per non sentirla ci anestetizziamo spesso con tutte le droghe moderne del caso, che però sono poco psicotrope e molto digitali. Io ho paura come tutti, a volte molta e riesce a paralizzarmi, a volte costante e diventa persino rabbia. Credo che derivi da due cose: la mancanza di orizzonti e la poca umanità delle vite che conduciamo.
Avrei voluto raggiungere questa consapevolezza un po’ prima. Non sono sicuro di averne ancora pieno possesso ma è il fondamento per stare bene con gli altri e per costruire futuri possibili insieme. Molti si stanno guardando dentro, ma in maniera autoreferenziale, non sono disposti all’altro. A lungo termine tutto questo risulta dannoso.
Il cervello fa economia, che tu voglia o meno. Alcune cose le ho dimenticate, alcune voci non le ricordo più, E ho amato, eppure non le vedo più nitide, forse scelgo di non soffrire. Quando il ricordo è vivo rischia di aprire un rubinetto difficile da domare. Credo che non si debba rimanere ancorati, ma essere capaci ricordare. Riportare al cuore.
Naive, scuro e onesto.
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