Abbiamo conosciuto santachiara, cantautore classe ’98, figlio del mondo e delle situazioni, caratteristica che si sente bene nel suo nuovo album “La strada più breve per tornare a casa“.
Questo progetto vuole essere un percorso per chi lo ascolta. Dodici tracce che segnano una una strada vera e propria verso ciò che ognuno di noi pensa come casa, verso ciò che ci fa sentire a casa.
Abbiamo voluto percorrerla tutta insieme al cantautore.
Diciamo di sì. Nel senso che la casa è qualcosa di metaforico, è un luogo dove ci sentiamo sicuri e confortati, fatto da persone ed esperienze più che stanze o mura. Non è un caso che abbia deciso di utilizzare come copertina del mio album un salotto costruito per strada. Volevo dare coerenza al messaggio.
La casa che ho trovato per me è la musica e lo è sempre stata. Perché quel posto e quel modo di sentirmi capito e di darmi la possibilità di sfogare emozioni ed esperienze me l’ha data la musica. Casa poi per me è Napoli, ma anche Spoleto, Roma, Milano. Casa è un po’ tutto il mondo, tutti i percorsi e le esperienze che mi hanno fatto sentire al sicuro. E anche quelle che non mi hanno fatto sentire al sicuro, ma mi hanno fatto crescere.
Come ho sempre voluto fare e come farò sempre, non mi sono legato ad un determinato sound o genere, ma ho cercato di costruire un album basato su quello che a me avrebbe fatto piacere ascoltare. Io vengo dal rap, infatti c’è un po’ di metrica, poi c’è molto cantautorato, molta chitarra, con cui ho iniziato a comporre ed esprimere, c’è un po’ di anni ’90, britpop, grunge, reggae, hip hop. Insomma, tutti i generi che mi hanno cresciuto. È un processo inconscio: le cose che mi piacciono e mi gasano sono quelle che poi ritrovi.
Abbiamo selezionato i brani che senti per seguire il concept: accompagnare l’ascoltatore attraverso un percorso. Tant’è che l’ordine delle tracce non a caso, è stato scelto ad hoc. Penso che nonostante un mondo molto distratto, con tanti stimoli e poca attenzione, è importante che la musica dia quella profondità e quel senso romantico che l’arte deve avere.
Ho lavorato veramente tanto e molto è cambiato quando ho iniziato a collaborare con altre persone, oltre al fatto che io stesso mi sono ritrovato a mettermi sulle macchine e produrre.
Quello che ho fatto prima mi ha permesso di crescere, il bello di un artista è questo: se inizi a seguirlo deve avere un’evoluzione nel tempo e anche tu che lo segui devi sentirlo crescere. Sembra un paragone assurdo, ma è un po’ alla Harry Potter: ho iniziato a vederlo bambino e nel tempo è cresciuto con me.
Il primo disco era l’arte fine all’arte, senza una figura ben delineata, pura espressione. Adesso sono migliorato dal punto professionale della musica, ho studiato e quando vai oltre non riesci a tornare indietro. Ho lavorato con molte persone, in particolare Golden Years, Renzo Stone e Andrea Bonomo e la cosa mi ha cambiato. La musica è sempre stata per me molto personale, ma è stato bello perché mi hanno permesso di crescere, insegnandomi determinate caratteristiche. Ho preso un po’ da uno e un po’ da un altro e questa cosa si sente: è un album strutturato, dal sound ai testi, comunica qualcosa in più rispetto a prima.
Io la musica la uso anche per vedere le cose scritte nere su bianco. Quello era uno sfogo e definisco un po’ quello che è il senso del mondo moderno: un inseguimento costante di determinati canoni e un percorso che è segnato uguale per tutti quanti. Io non sono d’accordo e a volte ho bisogno di dire quello che penso.
“va bene così” doveva essere l’intro perché ogni tanto ci serve una pacca sulla spalla che ti fa capire che sei unico nella tua essenza e non è facile esserlo in un mondo che ti vuole meno unico possibile. È poi un ottimo inizio per parlare di un viaggio: devi partire con la voglia, la forza e il divertimento, devi essere pronto ad affrontarlo.
È normale che la musica parli molto dell’amore: è il sentimento più umano e antico che esiste. Io ho iniziato a scrivere di musica e parlavo d’amore, ma mi aveva stufato questo amore classico “io ti amo”-“tu mi ami”-“mi manchi”-“ti manco”. Visto che non posso fare a meno di parlarne, ho cercato di farlo in modo più originale.
Ad esempio, “Colpa dei no” è un odi et amo, è un amore che ti fa stare male, parla di una persona che non sopporto, ma com’è che mi fa stare anche così bene?. “Nina” è un pezzo forse più romantico che d’amore, devi sapere che io sono un eterno romantico. O un ancora, in “Le porte della notte”, parlo di una storia d’amore che è finita ma per cui non sto morendo, anzi, a cui ripenso col sorriso.
Il titolo del disco nasce da questo aneddoto. Ero con un mio amico per strada e, dopo una lunga serata, dovevamo decidere se andare da una parte o dall’altra e lui mi ha detto: “dopo una serata così, dobbiamo fare la strada più breve per tornare a casa”. A me è rimasto impresso.
Spero che questo album sia uno spunto per riconciliarci con se stessi, nel modo più facile e più naturale. Spero sia davvero una strada per tornare a casa nel mondo di oggi che ti porta ad alienarti, lontanissimo da quello che sei tu e lontano dai posti in cui ti senti bene, per vari motivi.
Io voglio che sia, in un certo senso, un abbraccio caldo, una colonna sonora per tutte le emozioni che ti avvicinano a te stesso. Voglio che, ascoltandolo, ci si riavvicini a se stessi.
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