Gabos: “Il tempo lascia il segno, mutando” | Intervista

PH: Ufficio Stampa

Gabos: “Il tempo lascia il segno, mutando” | Intervista

Si tende spesso a nascondersi dentro le proprie insicurezze, pensare che ormai sia troppo tardi  e non esista nessun tipo di possibilità non solo per inseguire dei sogni, ma anche per esprimere le emozioni, liberandosi da troppi filtri.

Gabos sceglie di metterci la faccia, in maniera  anche metaforica lasciando via la moda dell’egocentrismo e dell’apparire, ,mostrando un progetto musicale che rispecchia i suoi pensieri e le sue aspettative, in lotta tra passato presente e futuro.

“Il segno del tempo” è un album che oscilla tra il rock alternativo ed il pop, con testi che citano, tra gli altri, i C.S.I., i Baustelle, T.S. Eliot, gli Afterhours, Majakovskij ed Alda Merini.

Questo disco rappresenta una riflessione in musica sui lividi che il passare degli anni lascia sulla (e sotto)pelle, perché, come dice lui, anche l’anima invecchia e il segno del tempo rimane.

INTERVISTANDO GABOS

Questo disco è davvero arrivato al momento giusto. Ci puoi raccontare quale percorso c’è stato prima?

Il disco è stato pubblicato poco dopo il mio quarantesimo compleanno, segnando una tappa fondamentale sia nel mio percorso umano che musicale. È il mio primo lavoro in italiano, dopo diverse esperienze con le band The Rain Storm e Disposable Noise ed il mio primo lavoro “Something Beautiful” del 2019, dove la lingua predominante era l’inglese. Scrivo canzoni fin dall’adolescenza, e i miei primi tentativi, seppur maldestri, erano influenzati dalla scena brit pop. Con il tempo, mi sono avvicinato alla scena indipendente italiana. “Il segno del tempo” riflette molte di queste influenze, sia negli arrangiamenti che nel linguaggio e nelle immagini che cerco di evocare nei testi. Nella mia giovinezza, ho preferito curare la dimensione live, ma negli ultimi anni ho deciso di abbandonarla per dedicarmi alla composizione casalinga e alla realizzazione di musica più per l’ascolto che per l’esperienza dal vivo. Con la maturità data dalla mia età, ho perso interesse per il mondo dei locali, dei music club e dei concorsi, preferendo una dimensione più intima e riservata che solo la registrazione può darmi.

Il progetto GABOS, infatti, ha un’identità puramente digitale, senza che la mia immagine sia pubblica. È volutamente filtrata attraverso la digital art, che punta ad evocare e a lasciare andare l’immaginazione piuttosto che focalizzarsi narcisisticamente sulla mia, peraltro poco interessante, immagine.

L’anima invecchia e il segno del tempo rimane: il passato è più forte del futuro?

L’anima, con il passare del tempo, accumula esperienze e ricordi che lasciano segni indelebili. A volte sono lividi e traumi, altre volte ossigeno che riempie i nostri polmoni. Il passato ha un peso specifico che non possiamo ignorare: è ciò che ci ha formato e ci ha portato dove siamo oggi, nella vita, nella musica e nella creatività.

Tuttavia, il futuro porta con sé la promessa di nuove possibilità e cambiamenti, anche se alla mia età è più realistico parlare di progetti dimensionati sulla consapevolezza dei propri limiti. Forse non si tratta di stabilire se il passato sia più forte del futuro, ma di riconoscere che entrambi hanno un ruolo fondamentale nel nostro percorso. Il passato ci dà radici e saggezza, mentre il futuro ci offre speranza e opportunità di crescita. Il messaggio più profondo di “Sottopelle”, la canzone da cui è tratto il verso, sta nell’incipit della seconda strofa: “cercherò senza fine un senso al tempo che va”. Il tempo passa e lascia un segno indelebile che sporca il cuore e corrode la forma, ma non possiamo arrenderci ad esso. La ricerca di senso, nella mia esperienza umana, è diventata essa stessa il senso.

Crescendo la rabbia si trasforma in esperienza?

Non sono mai stato un coltivatore di rabbia. Mi reputo piuttosto una persona estremamente curiosa. Nel mio caso è stata la curiosità a trasformarsi prima in esperimento e poi in esperienza. Nella musica, nelle relazioni, nei luoghi che ho chiamato casa. Sono orgoglioso del percorso che ho fatto. Certo, da ragazzo sognavo di poter fare il musicista e vivere della mia creatività e della mia musica. Ho seguito un altro percorso, forse meno “di successo”, ma che fortunatamente mi ha permesso di mantenere viva la mia passione (che non ho la presunzione di chiamare talento) per la scrittura di canzoni. Per storpiare un brano de I Cani, confermo che questa “velleità” mi ha aiutato a vivere. Ora, con soddisfazione, pubblico questo disco, concepito, scritto, suonato, arrangiato e registrato interamente da me. Senza aspettative di piacere o di raggiungere un pubblico più ampio di quello dei miei amici, ma consapevole di avere ancora qualcosa da dire a chi avrà la curiosità e la pazienza di ascoltare.

PH: Ufficio Stampa

Nonostante le varie fatiche dell’inverno la primavera è una speranza di rinascita?

L’ispirazione che ha portato alla scrittura del testo di “Primavera” non riguarda tanto la speranza di rinascita, quanto piuttosto la raccolta dei frutti della maturità. La primavera della mia vita è ormai serenamente alle mie spalle: quella stagione è fatta di promesse, di amori adolescenziali che si attaccano al cuore e che poi svaniscono, di piccole cose che non tornano più. Il testo canta della “mia primavera” che muore e che “violenta la stabilità”, nel tentativo di comunicare il momento in cui realizzi che sta iniziando una nuova stagione per la tua vita. Quella del raccolto, della pienezza, perché dopo la primavera c’è l’estate. Credo che per l’uomo contemporaneo l’estate della vita siano i due decenni tra i trenta e i cinquant’anni, prima dell’autunno e del riposo dell’inverno. Il brano si conclude poi con la citazione dell’incipit di “La terra desolata” di T.S. Eliot, che esprime così chiaramente questo senso di straniamento: “Aprile è il più crudele dei mesi”. È una canzone dedicata a mio padre, che molti anni fa mi ha lasciato proprio l’ultimo giorno di primavera.

Quali sono artisti con cui sei cresciuto e 3 artisti che si stanno facendo scoprire adesso che consigli?

Sono diventato uomo grazie alle poesie e ai rumori dei Marlene Kuntz, alle note e alle distorsioni degli Afterhours, e mi sono immerso nei racconti dei Massimo Volume. Ora mi lascio affascinare dal talento purissimo di Emma Nolde, dalle immagini evocate da Vasco Brondi e da qualunque cosa esca dal genio di Umberto Maria Giardini.

Donare è meglio di ricevere?

È una domanda senza una risposta universale. Credo sia più una questione di approccio. Ho imparato che ogni cosa ha in sé la sua ricompensa e che dietro ogni gesto deve esserci una scelta consapevole. Posso scegliere di donare senza chiedere nulla in cambio, così come posso ricevere senza essermi meritato quel dono. Nel mio vissuto ci sono relazioni fondate sull’equilibrio tra dare e avere, altre in cui continuo a donarmi senza l’aspettativa di ricevere una ricompensa o un risarcimento per quello che offro. Ci sono relazioni per le quali non mi basterà una vita per restituire quanto di buono, bello e puro mi hanno dato. Come canto in “Nel tempo di morire”, credo sia una questione di lealtà e di chiarezza nella relazione: “avevamo un patto io e te, e il tradimento sai è dannazione”. Non c’è un meglio o un peggio, ma solo una scelta libera e consapevole.

L’amore quanti notti ti ha portato via?

Ho sempre avuto un modo molto personale di vivere l’amore. Mi ritrovo in questa frase di Pier Vittorio Tondelli: “Abbiamo bisogno di tempo. Di mettere tempo fra noi. Di vivere insieme, di viaggiare insieme, perché il nostro pensiero riconosca istintivamente l’altro; e lo riconosca come una presenza automatica di consuetudine e di affetto. Abbiamo bisogno di molto tempo per accettare la brutalità del fatto di non essere più soli.” L’amore non l’ho mai incontrato come una passione travolgente e totalizzante. È stato piuttosto un progressivo arrendermi ad esso. Il mio fragile orgoglio si è frantumato, così come lo canto in “Tracce di te”, ma non mi ha mai tolto il sonno.

Quale giudizio è più forte: quello di noi stessi o quello degli altri?

Possono essere entrambi molto severi. La scelta di “anonimato visivo” che sta dietro al mio progetto è anche una forma di difesa dal giudizio esterno. Un manichino senza lineamenti mi garantisce di essere tutti e nessuno, permettendomi di lasciare che il giudizio degli altri in fondo non mi riguardi. Ho avuto la fortuna di entrare nel mondo dei social quando la mia personalità si era già strutturata e non sono cresciuto con il bulimico bisogno di approvazione che caratterizza i giovani di oggi. Cerco di essere oggettivo nel giudicarmi. Sono intransigente sugli aspetti principali del mio schema valoriale, quali integrità, lealtà e solidarietà. Tendo invece ad essere tollerante su aspetti che ritengo meno centrali, come l’aspetto fisico, le mode passeggere o le aspettative sociali. Il giudizio di noi stessi può essere un potente strumento di crescita se usato con equilibrio, ma può anche diventare una prigione se lasciato senza controllo. Allo stesso modo, il giudizio degli altri può influenzarci profondamente, ma è importante ricordare che la nostra vera essenza non può essere definita dagli sguardi esterni. La chiave sta nel trovare un equilibrio tra l’ascolto delle critiche costruttive e la capacità di mantenere la propria autenticità e serenità interiore.

Gabos chi vuole essere da grande?

Penso che GABOS sia già maturo, ma che abbia ancora spazio per crescere e arricchirsi ulteriormente. GABOS è un progetto in continua evoluzione, che si nutre delle esperienze e delle creazioni che lo accompagnano. La maturità non è un punto di arrivo, ma un percorso fatto di scoperte, riflessioni e trasformazioni. Ci diamo appuntamento tra qualche anno per condividere quello che sarà stato? Nel frattempo, continuerò a esplorare, creare e vivere con curiosità e passione, senza mai smettere di cercare nuove ispirazioni e di evolvermi.

L’ultima tua canzone, “ Il disappunto dei passanti” a chi è dedicata?

Lo spoken word di questa canzone è ispirato al mio anno vissuto a Praga, quando avevo poco più di vent’anni. Le notti invernali erano gelide, ma il freddo non era solo esterno; si insinuava nelle vene, nella testa, nel cuore. Era un freddo nell’anima, perché crescendo mi scoprivo lontanissimo dalle mie aspettative. Leggevo il mio giudizio impietoso nella delusione della mia famiglia e nel disappunto dei passanti. È una canzone che parla della solitudine che si vive nel processo di accettazione del proprio limite, della lotta tra speranza e realtà, tra desiderio e delusione. Siamo soli con noi stessi in questa fase cruciale della nostra vita e possiamo contare solamente su noi stessi. È questo il senso della frase “e tu dormivi già e come sempre non si scopava”.