Casa Mia

Casa Mia | Indie Tales

Dalla cucina arrivava un odore di uova strapazzate e bacon. Erano solo le 7 del mattino ma David, il mio coinquilino, non aveva dormito tutta la notte per preparare un esame difficile. Io invece di studiare non ne avevo mai avuto troppa voglia. Si aprivo i libri giusto qualche giorno prima delle varie prove, e con qualche tecnica speciale, (sono sempre stato un maestro a improvvisare) riuscivo a entrare in empatia con i professori e portare a casa il risultato. Spesso era un goal in contropiede all’ultimo minuto. Un tiro nel sette dopo essermi difeso novanta minuti, aver stretto i denti, riuscendo a sfuggire con un dribbling alle domande scomode.

Ogni giorno poi c’era sempre un buon motivo per festeggiare e se non c’era lo si trovava sopratutto il giovedì sera, quando il pub vendeva un litro di birra a 5 € con concertino live di jazz. Cazzo, quel posto per me era il paradiso!

Io che mi sono svegliato da pochi minuti, dopo aver fatto le ore piccole un po’ mi sentivo in colpa. Lui chino sui libri a riempirsi la tazzina di caffè e io fuori a tirare giù una pinta dopo l’altra. Quelle uova che sfrigolavano in padella erano la sua ricompensa mentre a me l’idea di fare colazione mi faceva venire nausea. Forse il karma voleva darmi un  piccolo debito da pagare.

Quella settimana ero stato un animale notturno, sempre in giro, anche fino all’alba per poi passare tutto il giorno in letargo sotto le coperte. Le lezioni ormai erano finite da tempo e non avevo più nessun esame da dare. Il semestre stava finendo e purtroppo anche il mio Erasmus stava per volgere al termine. Quella mattina dovevo andare negli uffici a sistemare alcuni noiosissimi dettagli burocratici, consegnare alcuni libri in biblioteca e poi avrei fatto una lunga passeggiata lungo il fiume per salutare con malinconia quella città che era subito diventata casa mia.

Continuavo a ripetere nella mia testa che non era possibile che fossero già trascorsi sei mesi. 180 giorni volati via in un attimo. Avevo conosciuto tante persone che con i loro sorrisi mi  avevano sempre fatto sentire come se avessi trovato una nuova famiglia adottiva. Uno in particolare però non lo dimenticherò mai.

Suzanne aveva gli occhi azzurri, i capelli biondi, alta quasi un metro e settanta e sopratutto amava indossare dei coloratissimi maglioni oversize. Il mio preferito era giallo con degli strani omini disegnati, roba che avrebbe fatto impallidire molti puristi della moda, compresa mia madre, e per questo motivo, invece io lo amavo.

Quel maglione che poteva sembrare disgustoso rappresentava alla perfezione la libertà di essere se stessi. Chi lo indossava sicuramente non aveva paura di ricevere cattivi giudizi degli altri, oppure semplicemente se ne fregava.

Ora mi sentivo anch’io fatto così. Felice e spensierato. La mia timidezza era sparita. Avevo dovuto imparare a confrontarmi con una realtà diversa da quella dov’ero cresciuto e adesso che mi ero ambientato non volevo andarmene via. Si, forse un po’ mi mancava la mia famiglia, però ne avevo scoperta un’altra che non avrei sperato neanche nelle mie previsioni più ottimistiche.

Avevo iniziato a fare amicizia con il mio coinquilino parlando di calcio e lui, dopo avermi preso parecchio in giro per il mio strano accento del Sud,  mi aveva fatto scoprire alcuni luoghi meravigliosi come il ponte medievale o la piccola piazzetta del mercato piena di colori e voci straniere.

In quello momento stavo camminando proprio tra quelle vie, quando ad un tratto sento un “Ciao”, in italiano che mi fa fermare e aguzzare la vista. Forse sento già l’aria di casa e me lo sono immaginato penso tra me e me, così ricomincio a camminare perso nei miei pensieri.

CIAO!! Di nuovo. Non è possibile grido quasi stupefatto. Laggiù in fondo vedo due ombre che si avvicinano verso di me.

Erano David e Suzanne con una doppia sorpresa per me: lui con in mano una tazzina di caffè di Starbucks con il mio nome e lei con un regalo dentro un sacchetto.

Dopo essermi gustato il caffè, volevo aprire il pacco segreto, ma lei mi ha fermato subito. Voleva che lo aprissi solo quando mi sarei seduto sul sedile dell’aereo. Rassegnato, ho lottato contro la mia grande curiosità e ho accettato la sua volontà.

Tre giorni più tardi, dopo aver salutato tutti e non aver trattenuto le lacrime era il momento di tornare alla mia vita precedente. L’unica cosa che mi faceva essere felice era che dovevo ancora scoprire la sorpresa e quell’emozione mi aveva dato fortunatamente una ricarica di energia positiva grazie alla quale avevo accettato l’idea che era giunto il momento degli adii.

Appena arrivato al mio posto assegnato, ho così posato lo zaino tirando fuori il pacchetto misterioso.  Quando ho iniziato a strappare la carta e ho visto subito una macchia gialla che spuntava.

Erano la prima fotografia che avevo fatto con i miei  nuovi amici: io seduto sul muretto, David con una birra in mano e Suzanne con il maglione addosso.

Dietro c’era una dedica: “Questo posto è diventato casa tua, torna pure quando vuoi”

Racconto liberamente ispirato dal brano Casa Mia di Antonio Solo