“Strappare lungo i bordi”: Zerocalcare è arrivato, e non ci scorderemo del suo lavoro tanto presto
Ideato, scritto, disegnato e diretto da Michele Rech – sulle pagine dei suoi fumetti risponde al nome di Zerocalcare – “Strappare lungo i bordi” è la prima serie animata italiana prodotta da Netflix con la collaborazione di Movimenti Production e BAO Publishing.
Una miniserie di 6 episodi, sei “capitoli” molto corti, dove Zero decide di guardare indietro. E vede amori persi, dolore, baci mancati, le prime canne, le magliette col teschio, i primi disegni sui banchi di scuola, le serate con gli amici. Case incasinate e treni troppo freddi.
Le prime due puntate sono state presentate al Festival del Cinema di Roma, e dal 17 Novembre “Strappare lungo i bordi” è uscito su Netflix, attirando le attenzioni di pubblico e critica. Attenzioni che il prodotto di Zerocalcare si merita appieno.
This is an image from “Strappare lungo i bordi”, streaming on Netflix. (Netflix)
L’incanto di una narrazione già vista, eppure unica nella sua capacità di ibridare: Zoom in e Zoom out
Perché in “Strappare lungo i bordi” – come in tutti i suoi lavori – Zero porta avanti un progetto coeso, coerente.
Dal particolare per arrivare all’universale.
Il disegno di un ragazzo che passa ore a scorrere i titoli dei film e delle serie tv, senza decidersi mai. Zoom in.
L’indecisione dell’uomo di oggi, le troppe strade, le troppe opportunità che diventano miraggi in una società frenetica, in un mondo dove la locandina fluorescente e futuristica di un film cerca di coprire i limiti di una storia mediocre. Zoom out.
“Strappare lungo i bordi” altro non è che una gigantesca lente di ingrandimento che si avvicina e si allontana continuamente dal disegno di un ragazzo magro con un teschio sulla maglietta: le sue paure sono le nostre paure. L’armadillo che lo tormenta come un moderno grillo parlante con la voce inconfondibile di Mastrandrea “Sei cintura nera di come si schiva la vita” è la voce di una coscienza che tutti abbiamo.
E amici strani, case disordinate, l’aria condizionata nei treni… Piccoli stralci, luoghi comuni, risultati concreti di comportamenti universali. Centinaia di curriculum vitae mandati in giro per il web che non portano mai a nulla. Tutte quelle situazioni che ci fanno dire “Anche a me è successo!”
Zoom in.
Sono solo un preambolo. Un punto di partenza per l’inizio di riflessioni infinite, paranoie assurde, pensieri intricati come i cavi che si nascondono sotto le nostre TV. La condizione dei giovani al giorno d’oggi, relazioni tossiche che si stiracchiano per anni senza che nessuno capisca il perché, l’inseguimento di un sogno che sogno è destinato a rimanere. Discorsi che anche noi abbiamo fatto, certo. Ma che Zero in “Strappare lungo i bordi” – e più in generale in ogni suo lavoro – prende e rende suoi. E fa la cosa più difficile di tutti. Domande esistenziali, dubbi e paure. Rende tutto semplice. E rendendolo semplice lo rende comprensibile. Ancora più universale.
Zoom out.
Zerocalcare in “Strappare lungo i bordi” gioca con le sue storie, con le persone che lo circondano. Con i suoi spettatori. E ci porta in una Rebibbia che ama da impazzire perché è partendo dal piccolo, dalle dinamiche di un quartiere, che si arrivano a capire le leggi di un mondo troppo grande.
Zoom in. Zoom out.
La coscienza di Zero: un ego troppo grande per concentrarsi solo su se stesso
Un protagonista che parla. Uno stream of consciousness lungo un’ora e mezza.
Il mondo secondo Zero. La sua visione dell’uomo. La profonda convinzione che, per quanto ci si sforzi, tutto rimane sempre uguale. Capire e capirsi. Perché se Zero non ha capito l’amore di Alice – lo Zeno de ‘La coscienza di Zeno’ scritto da Svevo amava ripetere “È una delle grandi difficoltà della vita indovinare ciò che una donna vuole” – allo stesso tempo, pur soffrendo, pur ingoiando litri di bile, ha capito. E, soprattutto, si è capito. Perché riportare ordine nel mondo è possibile solo se si è riportato ordine nel tuo, di mondo.
Zoom out. Zoom in.
La stessa mamma di Zerocalcare, qualche puntata prima, aveva detto “Se non hai il controllo sulla tua casa, significa che non hai il controllo sulla tua vita.”
E Zero aveva detto che non solo lui non aveva il controllo. Lui non aveva l’autorità.
Non è una parola scelta a cuor leggero. Quella coscienza a forma di Armadillo – la sua coscienza, così come è anche la nostra coscienza – gli ripete continuamente che non ha il potere di cambiare le cose. E quindi non ha il potere di cambiare se stesso. Lo stesso meccanismo della fatidica, famosa, ultima sigaretta di Zeno.
È una narrazione che ritorna su se stessa, così intima, così onesta, così svergognata che diventa la narrazione di tutti. Di nuovo, zoom in e zoom out.
“Strappare lungo i bordi” è così concentrata sul protagonista – e allo stesso modo personalmente su ognuno di noi – che isola il protagonista in tutti i modi possibili. Zero tocca solo tre persone in tutte e 6 le puntate. Un ragazzino a cui fa ripetizioni, sulla spalla, mentre dice che a quei bambini è contento di aver lasciato qualcosa. Subito dopo, l’immagine di quel ragazzino che indossa la stessa maglia col teschio di Zero. Abbraccia Alice sul divano per consolarla. Ma quando lei prova a baciarlo, lui si scosta.
E, per ultima, la madre di Alice.
I primi due contatti li ha voluti Zero. E quando Alice ha spinto per qualcosa di più, lui si è allontanato.
Ma è l’ultimo, il giorno prima del funerale, il più significativo. La madre di Alice lo abbraccia, in cerca di conforto. E la faccia di Zero spiega tutto senza dire niente.
Non era pronto a uscire dal suo mondo, dai suoi monologhi, da quell’ego che nutre le sue storie e che – fortunatamente – lo ha spinto a volerle condividere con tutti noi. È quell’ego che lo spinge a stare lontano dagli altri, che diventano quasi interferenze. Un disturbo che gli impedisce di sintonizzarsi sulla sua voce interiore.
Interferenze che lui, per tutta la serie, zittisce in una maniera precisa. In “Strappare lungo i bordi” fino all’ultimo episodio le voci dei protagonisti (guarda caso tutte, tranne quella dell’Armadillo) vengono sostituite dalla voce narrante di Zero, che cerca di riprodurne le fattezze. In particolare Alice, che ha una voce monocorde e metallica, priva di qualsiasi inflessione, come a sottolineare il distacco emotivo dallo stesso Zero. Che la consola per i fidanzati persi, che si sveglia alle 2 di notte per andare a confortarla. Ma che non fa mai quel passo in più. Come se avesse paura di staccarsi troppo dal suo mondo.
Zero fino al finale pretende di dare voce a tutti: interpreta i loro stati d’animo, le loro intenzioni – spesso le loro azioni. Solo l’Armadillo – personificazione della sua coscienza – non può essere controllato. E vive di vita e voce propria. Questo per tutta la serie. Ma la storia arriva a un punto di lacerazione: la morte di Alice. Sarah racconta, prende in mano la storia. Qualcosa si sblocca, non è più Zero che guida i suoi personaggi, che ci guarda dentro, ma sono loro che lo prendono, lo portano fuori. E gli dicono la storia per quello che è stata veramente.
Zoom out.
E lui finalmente li ascolta, e accetta le loro risposte. Le accoglie. Intorno al fuoco delle loro pagine – i loro stracci, come li definisce Zero.
E cresce.
Zoom in.
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