CALCUTTA: l’outsider della musica italiana che sta scalando tutte le classifiche-La recensione dell’album “Mainstream”
Negli ultimi mesi, Calcutta è stato più volte menzionato per il suo ultimo progetto musicale dal titolo “Mainstream”; da molti ritenuto uno dei migliori album italiani del 2015. Incuriositi da questi continui riferimenti, anche noi abbiamo deciso di ascoltarlo per capire qualcosa di più riguardo a questa nuova realtà, che settimana dopo settimana si sta ritagliando un ruolo di prim’ordine nel panorama della musica italiana.
Leonardo Scapin lo ha ascoltato per noi, vediamo cosa ha da dirci…
Uno può trovarsi cantautore suo malgrado? La domanda non è da sottovalutare. Esistono infatti cantautori nati dal caso, dall’addio, dallo stacco. Figli di un vuoto, insomma. Edoardo Calcutta rientra perfettamente in questa categoria. Abbandonato dall’amico Marco Crypta nel 2011 dopo aver fondato insieme i “Calcutta”, il giovane è costretto a farsi cantautore. Ecco, allora, “Mainstream”: un album in cui questa sorta di disagio esce allo scoperto e si getta addosso all’ascoltatore.
Il cantautorato di Calcutta nasce da un senso d’inadeguatezza evidente e trova nei testi una valvola di sfogo ideale per gridare al mondo questo irrimediabile stacco, a tratti ironico, in altri pregno di malinconia. Calcutta espelle inquietudini e tossine dell’anima, canta un po’ come un Brunori Sas disilluso, incapace di consegnare soltanto poesie. In quest’album troviamo, invece, istantanee di un tempo lontano, il tempo del gioco, dell’amore puro ed innocente “Io vorrei restarti accanto come fossimo bambini a guardare il cielo da fessure come topi nei tombini” (Limonata), schegge impazzite di vita quotidiana ed atti di una ribellione pigra ma sincera , dal “Io ti giuro che torno a casa e mi guardo un film” a “Non ho lavato i piatti con lo Svelto e questa è la mia libertà” (Due frasi di “Frosinone”).
Poi arriva l’amore. Ce n’è tanto, quasi in ogni traccia. Inadeguato, ovviamente : “ Ho fatto una svastica in centro a Bologna, ma solo per litigare..” (Gaetano). Intanto si guarda indietro con occhio disincantato ma mai retorico, facendosi cantore di una quotidianità terribilmente sballata e tuttavia reale. La realtà di Latina, città – rifugio, madre e sfondo. Le cose sono come sono. Calcutta sembra raccontare questo, niente di più. Non c’è artifizio nella sua musica, non c’è marchingegno. L’arrivederci arriva con “Le Barche”, pezzo di chiusura : “ Sono le barche che mi mancano, quelle con le quali gli uomini rigirano l’oceano per scoprirne il mistero più profondo.”
Sembra una storia di pirati e velieri, epica narrazione di un tempo lontano, ma anche qui, Calcutta esprime un’immagine alta, capace da una visione : “e frena che c’è un dosso e poi finisce il mondo.” Non ci sono certezze nei suoi pezzi; in un tempo di tuttologi e sermoni infiniti, ci sembra già una gran notizia.
Di Leonardo Scapin