Wabi Sabi, pubblicato il 12 novembre per la Grande Onda dischi, etichetta di Piotta, è il primo album dei Luvaq. Sono una formazione pugliese composta dal produttore Manu PHL (Emanuele Flandoli) dal chitarrista Naima (Emanuele Perrone), affiancati dal bassista Anoir Ben Hadj Amara.
Le canzoni d’amore e di nostalgia, raccontano l’ansia sottile del tempo che non si ferma mai, i sogni che sbiadiscono lentamente e l’amore che prova a essere eterno, come un bacio fra le macerie della crisi post-industriale.
L’album nasce da un nodo alla gola, da quella sensazione di malinconia per un passato che non può più tornare, l’ansia per un futuro sempre più incerto, e dalle cicatrici sotto la pelle, quelle procurate dai rapporti finiti, dalle persone che non ci sono più, dall’impatto dei sogni adolescenziali con l’asprezza del mondo reale. Ma c’è anche la consapevolezza che quelle cicatrici sono bellezza, sono la testimonianza che il tempo vissuto è stato intenso, sofferto, ma pieno di significato.
Attraverso momenti diversi, ricordi del passato e speranze del presente, l’album si sviluppa trattando il tema dell’incertezza e dell’amore. Due sentimenti spesso in disaccordo, che lottano uno contro l’altro con la paura o il desiderio di trionfare.
Il brano che sintetizza questo mood è proprio Anni Dieci, di cui è uscito il video.
Il luwak è un animaletto un po’ sfigato che vive in Indonesia. E’ piccolo, bruttino e quasi cieco, ma ha un improbabile talento: mangia chicchi di caffè e li espelle semi-digeriti. Gli indonesiani li raccolgono, li tostano e ne fanno il caffè più costoso del mondo. Ma il talento del luwak è anche la sua condanna, perché viene catturato, chiuso in gabbia e costretto a mangiare solo caffè. Ci sembrava una buona metafora della vita degli artisti!
Che domanda difficile! Dobbiamo per forza scegliere?
Io ci metterei anche un velo di trip-hop e un pizzico di punk, mescolare per bene ed ecco la ricetta dei Luvaq.
L’album non è nato come un concept, ma più o meno consciamente tutte le canzoni parlano del tempo che passa e dell’amore che cerca di restare. Un po’ come una fotografia della tua ragazza del liceo, che resta lì nel cassetto anche se tutto è finito. Il concetto giapponese di Wabi Sabi indica la malinconica bellezza data dall’inpermanenza delle cose, dal fatto che non sono eterne, si consumano, decadono… calza perfettamente sulla sensazione che pervade il disco.
É una canzone nata di ritorno da un concerto nel bellissimo centro di Lecce, pedalando verso una periferia tutt’altro che bellissima… sicuramente c’è molto di Lecce dentro questo brano, ma devo dire che questa città si annoia con stile può essere riferito a moltissime altre realtà italiane.
Citando uno dei brani del disco, Icaro, di stare con i piedi sul suolo, ma lo sguardo su in alto. Sono tempi in cui sembra che non ci sia spazio per i sogni, ma senza sogni (e senza arte) siamo finiti in partenza.
Decisamente l’ascesa dei social, ci siamo tutti un po’ staccati dalla realtà, risucchiati da una rete virtuale. Questo ha portato degli sviluppi positivi (uno su tutti, la crescita della musica e della cultura indipendente a scapito di major e network) ma anche un generale incattivimento delle relazioni. Sarebbe importante tornare a vivere di più le relazioni vere, riprendere un po’ di umanità. C’è bisogno di più amore e meno like.
Riuscire a pensare a qualcos’altro.
Grazie! Amiamo molto quella coda.
Ci basta una chitarra. Magari con un plettro.
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