Tutti abbiamo nostalgia di qualcosa. Ognuno di noi ha una tristezza che si porta dentro, in un cassetto chiuso a chiave o semi-aperto. Questo non vuol dire che non si possa essere sinceramente felici. Daniele Napodano, in arte Napodano, ne è la prova. È nato a Roma, attualmente vive in Belgio e ciò di cui prova nostalgia sono gli anni 80, il periodo della sua infanzia.
Oggi è un musicista di professione e un papà: il non essere più solo “figlio”, spiega, è un ottimo modo per far coesistere nostalgia e felicità. Il suo ultimo singolo “Maledetti anni 80”, uscito l’8 Maggio, parla proprio di questo e di quanto sia impossibile uscire indenni dalla decade più folle di tutte.
Non è indispensabile ma di certo aiuta molto! Gli anni ‘80 sono stati un periodo che ho amato e amo tuttora. I miei ricordi più belli sono custoditi in quel periodo. Pensando poi a tutte le volte che seguivo mio padre nelle sue serate musicali mi viene in mente quanto sarebbe bello se anche mio figlio potesse un giorno avere lo stesso tipo di ricordo. E come ho già detto, nessuno esce indenne dagli anni ‘80!
L’ipersensibilità è una parte terribile del mio carattere e gli anni ‘80 l’hanno messa davvero alla prova! Io ero di quelli che si commuoveva davanti alle pubblicità della Barilla! Ho vissuto quegli anni da bambino, quindi ho assimilato gran parte di ciò che vedevo: la tv spazzatura, i grandi film in prima visione che cominciavano alle 20:20, la scuola elementare dove mi chiedevo che cavolo significasse quella nuova canzone che gridava “welcome to the jungle”, le classifiche musicali sulle tv private dove tifavo Spandau Ballet contro i Duran Duran. Tante cose successe in quel decennio le ho vissute con gli occhi dell’infanzia, è vero, ma fortunatamente ne ho conservato solo i ricordi più belli. Quindi sì, direi che sono stati un bene!
Sono partito, per la maggior parte dei brani, da cose che ho visto o vissuto. Raccontate a modo mio, ovviamente. C’è da dire che sono un musicista in campo da molti anni, quindi è inevitabile che nel tempo abbia trovato uno stile personale che caratterizza ogni brano. Pur scrivendo di cose molto diverse, la penna è sempre la mia.
Dopo tantissimi anni di lavoro in Italia e all’estero ho scelto di cambiare vita, di provare a ricominciare. Quella del Belgio è stata una scelta casuale che si è rivelata azzeccata. Vivo in una realtà più piccola rispetto a quella a cui ero abituato, più a misura d’uomo, dove essere un musicista è una professione come un’altra, potendo così arrivare ad esprimermi artisticamente sia qui che in Italia in due modi differenti. Un bello stimolo direi!
Voglio sempre raccontare una storia. Comincio dal “c’era una volta”, l’incipit, la mia prima strofa. Dopodiché sviluppo il racconto per arrivare poi ad inserire il punto focale, il ritornello, che deve spiegare in poche righe il cuore di ciò che provo. La musica viene da sola, ma solo in un secondo momento, forse perché esce così spontaneamente che neanche devo starci a pensare.
Il concetto di Indie c’è sempre stato, magari si chiamava in modi diversi, suonava con strumenti diversi: in Italia c’era un festival che si chiamava ToraTora, a cui partecipava il meglio della musica alternativa del periodo come Afterhours, Marlene Kuntz, Subsonica, Modena City Ramblers, Bluvertigo. Non erano forse Indie in quegli anni? E i Nirvana, Sonic Youth, Soundgarden? Li hanno chiamati Grunge, ma non erano forse un Indie più incazzato? L’Indie è sempre esistito ed esisterà sempre, almeno finché ci sarà qualcuno che vorrà contrapporsi al regime mainstream, scontato e tacitamente accettato dalla grande massa.
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