Ossido | Indie Tales
Ieri notte ho fatto un sogno. Ero in una città molto simile a quella in cui vivo. Anzi, potrei dire quasi con assoluta certezza che fosse proprio quella in cui vivo, ma era strana, diversa. Sembrava bidimensionale, e la luce che rifletteva sui palazzi, sulle strade e sulle macchine era di un viola tenue.
Le persone erano tristi, camminavano a testa bassa e avevano tutti lo stesso passo, lento e continuo.
Io stavo lì e mi sentivo uno di loro. Come loro, percepivo una pressione su di me che mi impediva di andare troppo veloce, ma non riuscivo neanche a fermarmi.
Gli unici ad essere immobili erano i barboni, buttati in qualche angolo o davanti a portoni grandi e scuri. Nessuno si curava di loro, nessuno si fermava a far loro un sorriso o a dar loro qualcosa per svoltare la giornata. Erano tutti troppo presi dalle loro piatte vite, troppo intenti a guardare i propri piedi che camminavano ininterrottamente.
Ora che ci penso, la luce che colpiva i barboni non era violacea. Era bianca, a tratti accecante. Nell’immaginario comune, queste persone sono identificate con l’ombra, con il buio e l’oscurità. Nel sogno invece sembravano angeli di cui nessuno si accorgeva, tesori preziosi alla portata di tutti i passanti, ma che nessuno sembrava notare. Ricordo che avrei voluto sedermi a chiacchierare con uno di loro, ma era come se avessi una traiettoria da percorrere ben precisa e non potessi cambiare tragitto per niente al mondo.
Sembravano felici, molto più dei signori eleganti con le loro cravatte e valigette. Spensierati, spiccavano dal loop della vita cittadina intorno a loro.
C’è una scena che mi ricordo molto bene e che mi ha scosso non poco. Un signore elegantissimo stava camminando con la sigaretta in mano, gesticolando mentre parlava al telefono. Ad un certo punto, passando davanti ad un barbone, gli getta il mozzicone in testa e continua a camminare senza battere ciglio. Il pover’uomo allora raccoglie la cicca ancora accesa e tenta invano di tirargliela dietro, ma l’uomo era già lontano e lui, a quanto pare, non poteva alzarsi.
Se i passanti non potevano fermarsi, loro non potevano lasciare la propria postazione, pensai. Non saprei dire cosa sia peggio, ma credo sia un’interessante metafora di ciò che accade nella realtà.
Abbiamo i nostri lavori, le nostre vite e siamo in costante movimento. Se ci fermiamo, siamo perduti. Capiamo ben presto che la cosa più importante è non smettere mai di muoversi, evitare di avere troppo tempo per pensare.
C’è chi, invece, vive un po’ una vita al contrario. Questi signori che, chi per una disgrazia, chi per sfinimento, attua una sorta di suicidio sociale, rinunciando a tutto ciò che renderebbe la loro vita una vita normale.
Ma è pur sempre vita. Nel sogno, è come se avessi portato all’esasperazione l’eccesso di movimento da un lato, e la totale inattività dall’altro. Due realtà che non si incontrano mai, se non in centri specializzati.
Fermarsi a parlare con una di queste persone non dovrebbe esser visto come un atto di beneficienza nei loro confronti, ma più come un desiderio di fermarsi un momento, di trovare la lucidità necessaria per capire che fermarsi non può nuocere alla monotonia della nostra vita, anzi. Può farci rendere conto di cose che, se continuassimo a muoverci sempre, non vedremmo mai.
Inutile dire che, sen sogno, non sono riuscito a fermarmi a parlare con un di loro. Né a vendicare quel poveretto che si era beccato un mozzicone in testa. Ma Mi sono svegliato con la voglia di non fare nulla, e così ho fatto.
Un racconto liberamente ispirato al brano “Ossido” di wLOG