PH: Bruno Buontempo

Diamarte: “Per riscoprire l’istinto bisogna eliminare i preconcetti” | Intervista

Il rock da sempre è stato sintomo di ribellione, e i Diamarte lo sanno bene dato che fanno il loro esordio con “Transumanza”, disco politico che riflette sul mondo di oggi. Ormai è diventata un abitudine accettare la realtà delle cose, senza sprecare neanche tempo a chiedere il perché queste accadono, ma senza la riflessione l’uomo si trasforma in una macchina, obbligata a rispondere a input, in maniera totalmente meccanica e asettica.

I Diamarte si ritrovano in studio con Carmelo Pipitone durante il periodo del lockdown per cercare, e trovare una direzione musicale, riprendendo un discorso iniziando durante l’adolescenza, con la musica che diventa uno strumento necessario per sentirsi connessi.

Molto spesso anche la provincia può provocare un senso di smarrimento per chi ci vive al suo interno, perché c’è la possibilità di trovarsi in un piccolo microcosmo, talvolta rurale, nel quale ci sia il rispetto verso usi e costumi diventati ormai tradizioni, magari antiquate se ci si sposta a qualche chilometro di distanza. In certi paesini il tempo sembra essersi fermato in una situazione di stasi, mentre il mondo esterno continua ad accelerare. Proprio in queste zone, al confine con il bosco, l’essere umano può riscoprire il proprio istinto naturale.

Per riuscire a liberarsi da schemi preimpostati bisogna essere disposti a lottare anche contro convinzioni da sempre autoimposte, sradicandone preconcetti, in modo da riuscire a scegliere quale strada percorrere per riuscire a trovare un posto nel caos di questi tempi  moderni,  così “Transumanza” ci  fornisce le coordinate per conoscere i Diamarte.

INTERVISTANDO I DIAMARTE

Chi sono i Diamarte e come nasce questo nome?

Prima di tutto, Diamarte per noi è una sorta di intermondo, un luogo altro in cui abbiamo sempre trovato il modo per esprimere noi stessi. Noi quattro siamo cresciuti insieme, anagraficamente e musicalmente, e durante l’adolescenza avevamo già provato a percorrere questa strada, dovendo poi abbandonare per accidenti esterni e per lo scarso appeal che la nostra musica suscitava nel panorama musicale molisano. Nel 2018 abbiamo deciso di riprendere questo discorso, forti delle esperienze fatte nel frattempo. Abbiamo avuto modo di collaborare con le giuste persone, che hanno saputo aiutarci a esprimere qualcosa che fosse prima di tutto nostro, tanto da divenire parte integrante di questo mondo.

Il nome si lega strettamente a questa prospettiva, perché Marte è il pianeta vicino e lontano per antonomasia, il luogo che non si può ancora raggiungere, ma cui si anela con una speranza sempre maggiore. “Dia” in greco significa anche “per mezzo di”; ci piace pensare, dunque, che il nome Diamarte simboleggi prima di tutto il legame umano e musicale che si è creato fra noi tutti, membri del gruppo e produttori; è il luogo dove possiamo dare una veste concreta alla nostra esperienza esistenziale e alle nostre istanze espressive, in maniera libera e ironicamente polemica.

Quali sono le vostre radici?

Le nostre radici sono prima di tutto agganciate alla realtà provinciale da cui proveniamo. Vivere nella periferia della periferia in molti casi significa scontrarsi con l’immobilismo di un mondo che rifiuta a prescindere tutto ciò che non vede come condiviso e tradizionale. La ricerca di altro, di un qualcosa di diverso, diventa a questo punto un modo per andare “Fuori Traccia”, per affermare la propria identità in contrapposizione a quello che non si vuole essere. Da qui parte anche la ricerca musicale mai sazia che contraddistingue i membri del gruppo, anche se tutti conserviamo un particolare attaccamento alle sonorità del Rock degli anni ‘90, perché esso si costituisce proprio come negazione della scena musicale precedente. Insomma, come Montale, possiamo dire solo quello non siamo.

Potremmo definire “Transumanza” come un disco politico? Perché?

Transumanza è sicuramente espressione politica, anche se non organica in senso gramsciano. Non intendiamo sostenere nessuna fazione o parteggiare per qualche schieramento. Si tratta di un disco politico perché è politica ogni espressione di giudizio atta o pensata per avere un impatto sulla nostra società. Noi diamo tremendamente il nostro giudizio su quello che vediamo intorno a noi e, anche se tratteggiato con ironia, esso non è positivo. Vale la pena, tuttavia, sottolineare come la nostra critica rivolta a chi segue la massa è sicuramente rivolta anche a coloro che si lasciano irretire dai populismi che infestano la scena politica odierna, da cui non possiamo che sentirci molto distanti.

L’uomo sta abbandonando le varie ideologie preferendo credere sempre alle stesse promesse?

Le ideologie erano proprie di un’epoca in cui c’era il tempo di ascoltare, riflettere e dare o meno la propria adesione a una certa visione del mondo. Quest’epoca celebra il culto della velocità molto più di quella che ha prodotto il Futurismo.

Tolto lo spazio della riflessione si torna a un mondo primordiale, in cui tutto il nostro tempo è votato al soddisfacimento delle più immediate necessità. Inoltre, la nostra società manca di prospettiva temporale, non conosciamo quel che abbiamo dietro di noi e non riusciamo ad avere una qualche progettualità votata a costruire il futuro. Tornando a una domanda precedente, mi sembra evidente che questo sia anche il grande limite della politica italiana attuale. Non c’è ideologia senza prospettiva temporale, a questo punto che altra scelta si ha se non seguire le promesse di chi ti offre di soddisfare la tua necessità di oggi?

Quale aggettivo vorreste associare al mondo di oggi?

Sarebbe bello rispondere esplosivo, tuttavia credo che l’aggettivo più adatto sia “incastrato”. Penso sia evidente come viviamo in un mondo falsamente libero, stretti e costretti in una gabbia, come animali allo zoo (ogni riferimento alla necessità di esporsi sui social per avere una qualche consistenza e risonanza è intenzionale). Siamo messi su dei binari che ci tocca seguire in maniera acritica il più delle volte, percorrendo tracciati a volte pericolosi (in alcuni casi esplosivi). Una volta Andrea (il nostro cantante) fece un commento in riguardo all’ultimo verso del testo di “Fuori Traccia”: disse che deragliare è, paradossalmente, l’unico modo per non farsi male.

Esistono ancora i generi musicali o anche il rock and roll è morto?

Nessuna forma artistica che sia portatrice di istanze di natura esistenziale muore davvero, al massimo si trasforma. Sicuramente il Rock non ha la stessa risonanza mediatica e lo stesso riscontro popolare di un tempo, ma sono anni ormai che il gusto musicale si è spostato verso altri lidi. Stranamente questo declino viene associato solo al Rock, non ho mai sentito nessuno chiedersi se il cantautorato sia morto o se lo sia il jazz o la classica. Evidentemente si tratta di forme musicali particolarmente e fortemente connotate, che ben presto hanno finito per essere un qualcosa che tendenzialmente si definisce cacofonicamente “di nicchia”.

Per il rock, probabilmente, non si fa questo ragionamento perché nasce e si evolve come musica mainstream (sì, anche i Nirvana sono stati mainstream) e ora si assiste a quello che sembra una sua messa in secondo piano, una convalescenza da malattia terminale. Questa cosa è vera se pensiamo la musica come fatto di massa e non come espressione artistica e la valutiamo solo in ottica di mercato. Anche qui si ripropone l’immagine del gregge di cui parla il nostro album, possiamo/dobbiamo seguire quello che fanno tutti o deragliamo? In fondo, nella sua accezione più romantica, il Rock è libertà e anticonformismo, si può provare a fermare una pietra che rotola, ma si finisce schiacciati. Io direi che il Rock sta bene così, soprattutto fintanto che ci saranno musicisti che lo vedranno come uno spazio in cui esprimersi liberamente, secondo la loro genuina sensibilità.

Che rapporto avete con la rabbia?

La rabbia è uno dei più naturali e necessari impulsi umani. Serve a scegliere e a prendere posizioni forti: questo sì, questo no. Sicuramente può scadere in atteggiamenti antisociali e pericolosi, come la violenza, ma può essere anche una forza positiva, che spinge a sollevare il capo e a essere eticamente responsabili, a dire di no, come già detto, e a dirlo con forza. Per atteggiamento preferiamo mascherarla tramite l’ironia, ma essa è presente e credo che nel tempo ci abbia aiutato anche a trovare noi stessi.

Avete una leggenda legata al bosco che vi affascina?

Il bosco nell’immaginario collettivo è per antonomasia un luogo buio, di pericolo e tentazione (Dante ce l’ha ben chiarito). Tuttavia è anche il luogo che si oppone alla cultura e alla civiltà, un orizzonte dove regna una sorta di Caos primigenio, dove crollano le regole sociali e si torna a quelle naturali, più vere, più immediate, più cogenti e spontanee. Per questo i boschi erano sacri nelle antiche culture celtiche (e per lo stesso motivo in tradizioni più recenti erano i luoghi in cui si svolgevano i Sabba, che di quei riti, probabilmente, conservavano le vestigia).

Mi colpì molto il racconto che Cesare Pavese fece del mito di Licaone ne “I dialoghi con Leucò”; sottolinea infatti questa dicotomia fra natura e cultura, fra i tratti più istintivi dell’uomo e quelli più sociali. Non si capisce se siamo lupi o siamo uomini in base al luogo in cui ci troviamo. E non è detto, è questo il punto, che essere uomini sia sicuramente meglio.