Ph: Fabio Frangione

Unpopularly popular: “Mføku” di Simone Faraci | Intervista

Mføku è il nuovo album di Simone Faraci, che ha deciso di sfidare l’idea canonica di struttura musicale per creare un vero e proprio viaggio – e anche un vero e proprio lavoro – sul tempo e lo spazio in cui il suono si muove.

L’iscrizione, l’etichettatura, il confine a cui il genere condanna i brani in Mføku non esiste più: esiste tutto quello che può esserci. E così nello stesso brano sentiamo free-jaz, elettronica, musica classica. E poi ambient, contemporanea, rock.

Mføku è un esperimento che sicuramente sa sorprendere.

INTERVISTA A SIMONE FARACI

Ciao Simone! Cosa significa Mføku, titolo del tuo ultimo album?

Il titolo del disco, Mføku, così come i titoli di tutte le tracce sono parole inventate, di cui mi interessa la musicalità. Sicuramente mi sono ispirato a parole esistenti in diverse lingue e dialetti ma non è un aspetto fondamentale per capire come approcciarsi al disco.

Hai detto che questo è un lavoro di sperimentazione “sul tempo dell’ascolto e sulla memoria”.

In questo disco ho voluto sperimentare con la costruzione di forme imprevedibili, utilizzando materiali musicali molto definiti da un punto di vista stilistico. Mi interessa molto lavorare sulla prevedibilità e imprevedibilità del discorso musicale e giocare sull’aspettativa di chi ascolta, a volte assecondandola, a volte sorprendendola. Parlo di memoria perché la memoria è necessaria per la costruzione delle aspettative. Ognuno di noi immagazzina nella propria memoria una serie di scenari possibili per cui si aspetta che una musica, a seconda dello stile, si evolva in una precisa direzione. Per questo ho voluto utilizzare stilemi musicali molto evidenti, presi dal funk, dal rock, dal Metal, dall’hip hop e dalla musica elettronica sperimentale.

Mføku è ben lontano da quello che siamo abituati ad ascoltare abitualmente. Da cosa è nata l’idea?

L’idea è nata appunto sul voler fare un disco che giocasse col concetto di aspettativa e desse proprio questo tipo di sensazione. Sicuramente ho avuto tanti punti di riferimento nel processo di composizione, uno su tutti John Zorn, in particolare i suoi lavori coi Naked City e il suo quartetto d’archi Cat o’ nine tails. Un altro riferimento è stato Oneohtrix Point Never, specialmente nel disco R Plus Seven, organizza la forma musicale in un modo che per me è molto interessante.

 In generale poi mi incuriosiva l’idea di utilizzare stili musicali provenienti dalla musica popular e inserirli in una forma a “momenti”, più simile a quella tipica della musica contemporanea.

La componente, passami il termine, “angosciante” è ben percepibile. È stato qualcosa che hai ricercato oppure qualcosa che naturalmente è fuoriuscito dall’unione dei suoni?

Sicuramente ho voluto costruire delle forme molto dense e con cambiamenti a volte repentini, tendendo alla “sovrastimolazione”,  caratteristica secondo me ormai dilagante nella fruizione di prodotti culturali in Occidente. Credo che la componente angosciante di cui parli sia dovuta principalmente a questo aspetto che in Tokū ho voluto rappresentare in maniera molto evidente.

C’è una traccia particolarmente importante per te?

Mføku I, II e III sono sicuramente i brani che più mi sono divertito a comporre. Sono tutti e tre incentrati su delle improvvisazioni registrate in studio con Donato Emma, batterista straordinario con cui siamo cresciuti musicalmente insieme da ragazzini. Tornare a suonare con lui dopo vent’anni mi ha riportato a quella spontaneità musicale e a quella freschezza nell’improvvisazione.

Poi c’è anche Marusi, dove il tempo si ricongiunge al corpo attraverso il respiro. Nella mia mente era il pezzo che avevo più chiaro, ma alla fine è stato il più difficile da comporre!

Cosa ti piacerebbe che sia Mføku per chi lo ascolta?

Mi piacerebbe fosse un’esperienza, una sorpresa, un’occasione di ascoltare la musica mettendo da parte le aspettative, immergendosi nella storia che i suoni hanno da raccontare.