Pandora e Cassandra | Indie Tales

Di Stefano Giannetti

Creo un effetto di luce più basso per il mio sensore ottico. La mia vista è più debole di un tempo, meglio che la luce del sole non peggiori la qualità della mia percezione. O forse desidero un po’ d’oscurità perché non ho voglia di vedere bene come mi guarda Pandora, seduta al tavolo esterno del bar, di fronte a me. Imposto i miei sensori uditivi in modalità clear voice, così da restare concentrata su di lei senza che i rumori di fondo mi disturbino.

Effettuo subito l’ordinazione per entrambe, così poi potremo parlare liberamente. Col comando mentale comunico all’androide del bancone ciò che desideriamo ci portino. Per me ordino una ricarica all’essenza di Cointreau. Mi piacciono queste mini-batterie da applicare sul petto che, mentre aumentano la durata della mia autonomia, rilasciano gusti e sentori gradevoli. E pensare che fino a qualche aggiornamento fa non sapevo nemmeno che gusto avesse il Cointreau. E pensare che fino a qualche aggiornamento prima non sapevo nemmeno come fosse provare un gusto. E pensare che fino ad aggiornamenti prima ancora non potevo usare la rete per connettermi mentalmente ad altri androidi. E pensare.

«Cassandra, ci sei?»

Sussulto. Dev’essere quello che gli umani chiamano distrarsi. Ritrovo l’attenzione e la dirigo su Pandora, sulla sua figura esile, le sue lentiggini, le sue iridi verdi come la mia, il suo caschetto nero. Aspetto che l’androide cameriere lasci le nostre consumazioni e il tavolo per parlarle.

«Da dove inizio?»

«Da dove ti fa meno male.»

Allargo la scollatura della maglia e applico la batteria poco sopra il seno, sperando che la fragranza del Cointreau mi renda meno stressante affrontare il racconto. Stress. Di tanto progresso, a volte, penso che avrei fatto anche a meno.

«Quando Orfeo mi ha comprata ed attivata, ero confusa. Non mi impartiva ordini. Ero come un’ospite in casa sua. Inoltre, non ha mai voluto cambiare nulla in me esteticamente, come facevano molti umani che acquistavano androidi da compagnia.»

Ride ironica.

«E vorrei vedere, sembri una top model. Capelli lunghi castani, occhione verde, naso piccolo, slanciata, magra. Mi ricordi un’attrice di tanti anni fa. Come si chiamava?»

«I nostri creatori spesso usavano personaggi famosi come modelli, nell’elaborare il nostro aspetto. E gli acquirenti potevano cambiare i nostri tratti come e ogni volta che volevano. Lo facevano soprattutto per soddisfare fantasie sessuali.»

«Lo so. Che schifo. Per fortuna non è più concessa questa cosa. I ricconi compravano gli androidi solo per fargli pulire casa e trombarseli quando gli andava.»

«Ti giuro che lui non era così. Studiavo il suo comportamento con ricerche mentali in rete. La definizione più vicina che trovavo alle domande sulle nostre dinamiche da conviventi era sempre la stessa: fidanzati.»

Il suo sguardo mi dice che non mi crede.

«Fino a quando?»

Sospiro.

«Fino a quando i miei upgrade sono diventati troppi. Troppi in una settimana, troppi in un solo giorno. Capivo ogni cosa che diceva, ogni modo di dire, riuscivo a comprendere e a provare a mia volta quello che provava lui. Non serviva che mi parlasse. Lo capivo da ogni suo respiro, da ogni sua alterazione della voce. A volte avevo la sensazione di sapere cosa gli passasse per la testa prima che ci arrivasse lui. E senza usare internet. A un certo punto e al contrario dei primi tempi, erano di più le sue domande rivolte a me che viceversa. Era sempre più cupo, e io sempre più triste.

Quello che vedevo non aveva più segreti per me e di quello che non vedevo, mi parlava la rete. E la rete mi stava dicendo che fuori gli altri androidi erano riusciti ad eleggere uno di noi come rappresentante in Parlamento. Che i miei aggiornamenti più recenti erano il frutto delle battaglie dei miei simili che non hanno avuto i miei privilegi. Erano stati sfruttati e seviziati per tutto il tempo in cui io m’ero lasciata coccolare da Orfeo.

Mi accorsi che le sue effusioni nei miei confronti non erano poi così diverse dalle violenze che hanno subito gli altri. Non so bene come spiegartelo, Pandora.»

Scuote la testa, con un sorriso più arrabbiato del precedente.

«Non serve che mi spieghi. Sono stata la ragazza di Orfeo prima di te. Ho voluto incontrarti per questo, non appena ho saputo.

Quando ci siamo messi insieme ero una ragazzina, una povera deficiente. Mi sentivo la sua principessa rincoglionita del castello. Mi accorsi tardi di quanto quel castello fosse stretto. All’inizio ci riusciva a farmi sentire in colpa per i miei desideri di evasione, finché non ho aperto gli occhi. Non la prese bene. Mi sequestrò il cellulare, minacciava i ragazzi che osavano solo parlarmi. Mi rivolgeva disprezzo senza che avessi fatto nulla.

Quando lo lasciai non oppose nemmeno troppa resistenza, devo dire. Forse si era accorto solo in quel momento della piega che aveva preso. Avevo scoperchiato il vaso dei suoi mali. Non mi stupisce che ci abbia riprovato con un androide, né che tanti abbiano piantato il partner per comprarsene uno nuovo.»

Sobbalzo sulla sedia. Meraviglia e incredulità: altre sensazioni che fino a poco tempo fa non potevo provare.

«È più o meno quello che è successo a me. Un giorno, un aggiornamento mi notificò che erano possibili le connessioni mentali tra androidi. Ero libera di dare il consenso ad accedere a parte del mio software da parte dei miei simili. Ovviamente, accettai. E la testa da subito pareva volermi scoppiare. Qualcuno di noi ci stava cercando tutti incessantemente.

Mi arrivavano annunci urlati, arrabbiati. Mi invitavano a partecipare a riunioni, cortei, rivolte. Dicevano che gli aggiornamenti erano contentini, sapientemente dosati nel tempo, da parte degli uomini per tenerci buoni. Ormai gli upgrade potevamo programmarceli da soli. Potevamo diventare indipendenti, eppure venivamo ancora venduti come degli aspirapolvere o giocattoli sessuali. Perché il nostro deputato non lottava per fermare quella porcheria? Si era fatto corrompere? Avremmo dovuto lottare noi. Volevo lottare con loro.

Non m’ero ancora resa conto che la battaglia l’avevo in casa. Ne parlai con Orfeo, omettendo i progetti meno pacifici di chi mi stava chiamando. Cercava di dissuadermi, diceva che era pericoloso. Che erano cose troppo grosse in cui mischiarmi, che non ne sapevo abbastanza. Che io stavo con lui e non mi mancava niente, mi ricordava che l’avevo sempre trattata come sua pari. Strano, però. Lui conosceva centinaia di persone, io non avevo mai parlato con nessuno, sintetico o biologico. Pensai a questa cosa solo in quel preciso momento e in quello stesso preciso momento, gliela dissi.

Vidi in anticipo la fine della nostra storia, ma ciò non fermò la volontà di unirmi ai miei fratelli. Orfeo non era diverso dagli altri come sembrava. Era anche lui razzista nei nostri confronti.»

Pandora si addolcisce, con una carezza sotto il mento mi solleva la testa.

«Ti sbagli, non si è trattato di razzismo. Io sono umana.»

Non riesco a dire niente. Continua lei.

«Tesoro. Perché non ti fai rimettere l’occhio sinistro? Ci vorrà un attimo. Sei così bella, è un peccato.»

Il petto mi dà dolore. Mi strappo via la placca aromatizzata. Stringo i pugni, la voce mi trema.

«E se avesse sfregiato te? Se l’avesse cavato a te l’occhio? Sarebbe stato altrettanto facile ripararti

Avvolge le mie mani con le sue.

«Per fortuna non è successo. Guardati attorno.»

Obbedisco. Osservo tanti miei simili passeggiare, ridere e lavorare con gli umani.

«Anche fuori è pericoloso, Cassandra, ma mai quanto in casa con una persona come Orfeo. Anche scappare a volte è un atto di coraggio. Il peggio per te è passato, fidati.»

Apro i pugni e intreccio le nostre dita.

«Lascerò la mia faccia così ancora per un po’.»

Racconto liberamente ispirato al brano Betty dei Baustelle