È domenica, Angelica | Indie Tales

Di Stefano Giannetti

«Che hai fatto a ‘sti capelli?»

«Sarebbe “mi sei mancata” nel nuovo gergo locale?»

«È che so’ strani. Punte fucsia ai capelli castano chiaro.»

Stefano mi abbraccia. Facciamo a gara a chi stringe più forte. Forte come l’odore della lacca che mi fa arricciare il naso.

«E tu, che passati i trenta ancora ti fissi la cresta?»

Si stacca e mi stringe le guance tra i palmi, come faceva quand’ero bambina. I suoi occhi, che come i miei sono verdi solo se visti da vicino, tremano.

«Mi pettino così per non sentirmi vecchio davanti la mia piccola Sally Rooney.»

Rido in uno sbuffo.

«Sì, da ubriaca, forse.»

Mi accarezza le ciocche tinte che ha appena criticato.

«Stavolta te ne vai proprio, sorellina?»

Faccio un passo indietro. Le mie dita lasciano le sue in una carezza. Mi giro verso l’orto che fiancheggia casa. Il profumo dei suoi capelli lascia il posto a quello più aspro e pungente dei rami d’ulivo tagliati da poco.

«Non sono riuscita a fare la pendolare da Roma a qui, figurati a 800 chilometri di distanza.»

«Pendolare? Ange’, non ci hai mai provato. Torni una volta ogni due mesi e stai a un’ora e mezza di macchina. Ricordami di farti una foto, oggi. Così la metto nel portafogli. Metti che muori prima tu.»

Lo guardo seria.

«Perché non vieni? Non è una scuola di tre anni come quella di Roma. È un corso di pochi mesi.»

Prendo il cellulare e inizio a scrollare sullo schermo. Mi viene il fiato corto per incitarlo.

«Oh, manco ti dico i nomi degli scrittori che ci insegnano. Leggili, ti deve venire un colpo.»

Riesce a fermarmi semplicemente scuotendo la testa e sorridendo. Mi irrito.

«Ste’! Ho imparato da te. Riprovaci. Che cazzo ci fai ancora in quel supermercato?»

Tiro un respiro, abbasso la voce.

«Che cazzo ci fai qua?»

Evade il mio sguardo e mi cinge le spalle.

«Entriamo. Sarà pronto da mangiare.»

Arriviamo davanti al portone. Osservo un’ultima volta l’orto prima di entrare. L’erba è alta, tutto è un po’ in disordine.

Stefano mi annuncia ad alta voce con una battuta. Non ama i convenevoli.

«Un giorno di questi pranziamo alle undici! Se devo fa’ colazione di notte, ditelo.»

L’odore del ragù di mamma ha riempito il corridoio semibuio. Quello di broccoli, invece, è più di un olezzo. È un indumento che copre quelli che indossiamo già. Prima di varcare la porta della cucina alla nostra destra, sentiamo la risposta di Ginevra.

«Ste’, puoi sempre andare al baretto dove pranzi nella pausa-lavoro.»

Nostra sorella lascia con due battiti del cucchiaio di legno il sugo, ancora borbottante sul fornello spento da poco. Mi rivolge le folte sopracciglia aggrottate.

«E tu che hai fatto ai capelli?»

Non avevo dubbi. Le rispondo mentre vado ad abbracciare papà. Mamma è nascosta tra i fumi delle fettuccine scolate dall’acqua di cottura.

«Li ho tinti per non far restare a corto d’argomenti i rompicoglioni.»

Papà mi parla dopo un colpo di tosse.

«Sei dimagrita.»

Io? È lui che è diventato pelle e ossa. Ma non glielo dico. Ha gli occhi gialli, le guance scavate. Gli manca un incisivo inferiore. Faccio spallucce.

«Sono qui per ingrassare. Vero, mamma?»

Mia madre è presa dallo sporzionare la pasta all’uovo, rigorosamente fatta da lei ogni domenica, con l’aiuto di Ginevra. Sempre seguita da pollo e verdure. Non avrei voluto fare quella battuta. Non m’è mai sembrata grassa come oggi. Papà mai così deperito.

Mi siedo, e condiamo il pasto con le chiacchiere sulla vita di Roma e sulla scuola di scrittura creativa che sto per lasciare in favore dell’altra, molto più lontana. Stefano è curioso; papà forse finge interesse per distogliere la mia attenzione dai segni della sua malattia; mamma sembra più presa dalla riuscita delle pietanze. Ginevra non ci caga.

Aspiro una fettuccina ruvida, lascio che mi graffi la lingua. Sento una fitta al petto, un lumacone di saliva mi risale la gola e per poco non mi va tutto di traverso.

Mamma mi posa una mano sulla spalla.

«Tutto bene? Non sono buone?»

Le sorrido e annuisco. È sempre stata questa, la sua unica preoccupazione. Che i piatti non le riuscissero bene come quelli che faceva nonna. Perché è un rituale più forte di quelli religiosi, in questa casa, il pranzo della domenica. È l’ultima luce prima del dolce crepuscolo di ansie che ha inizio il pomeriggio e termina solo quando riesci a prendere sonno la sera.

Finisco il primo a fatica, tocco appena il secondo. Mi corre un brivido lungo i polsi, strizzo le palpebre per ridestarmi. Poso la coscia di pollo sul piatto e mi pulisco le dita sulla felpa di mio fratello, che scatta.

«Sei sempre la solita scema.»

Rido. Sollecito prima lui, poi Ginevra.

«Andiamo all’orto?»

Mia sorella arriccia le labbra.

«Stai fuori? Chi spiccia qua?»

Papà si introduce tossendo di nuovo.

«Vai. Aiuto io vostra madre.»

Io e Stefano ci alziamo sorridenti e all’unisono. Ginevra scuote la testa e ci segue.

«Beati i ragazzini che non hanno pensieri.»

Solleviamo bene le gambe per non inciampare in buche nascoste sotto l’erba. Raccolgo da terra un ramo d’ulivo e lascio scorrermi le foglie sotto il naso. Mi tornano in mente i novembre delle elementari, quando la raccolta delle olive era un gioco lungo settimane intere. Ci sediamo su dei blocchetti di cemento accatastati, io tra loro due. Stefano mi infila una foglia secca in un orecchio.

«Ti ricordi quante domeniche pomeriggio ti abbiamo fatto da babysitter qua dentro?»

Gli schiaffeggio la mano.

«E secondo te perché vi ci ho fatti tornare? Per giocare ancora ai pirati, tutti insieme.»

Lui sghignazza.

«Ti eri fissata con “One Piece”, ti piaceva fingere che quest’orto era il mare.»

«Ah, io m’ero fissata. Ricordo che a correre e a cantare quella sigla eravamo tutti e tre.»

Mi dà fastidio vedere Ginevra sempre imbronciata. Devo coinvolgerla. Almeno posso partire dicendo che c’ho provato. Le do una gomitata.

«Attacca. Eri tu la meno stonata. Com’è che faceva?»

Mi spinge via il braccio e si alza.

«Piantala. È finita ‘sta cagata, che abbiamo lasciato due vecchi a lavorare?»

Stefano pure si alza e le si pone di fronte.

«Gine’, e non fa’ la stronza. Che cazzo t’ha chiesto?»

Gli tiro una manica.

«Lascia, Ste’. Ginevra, che problema hai? Ogni volta che torno, ti rannuvoli! Cosa non ti sta bene? Non scopi? Devo presentarti qualcuno?»

Si china verso di me, punta gli occhi di ghiaccio nei miei e l’indice sul mio petto.

«È facile fare ‘ste scemenze. Andiamo all’orto, facciamo mamma fessa e contenta con le fettuccine. Intanto qua ci vieni quando fa comodo a te e ora parti pure per una scuola che sta in culo alla luna. Ma qual è il problema? Tanto sto qua io, no? Starò qua sempre e solo io pure quando mamma e papà non saranno più capaci di pulirsi il culo!»

Stefano si libera dalla mia presa e le dà uno spintone. Tremo. La aggredisce. Assisto impotente alla disputa.

«Dici solo cazzate. Mica è colpa sua se lei ha combinato qualcosa e tu non ti sai cavare un dito in un occhio, e hai paura di provare qualcosa di diverso da quello che hai fatto per anni in quella fabbrica di merda.»

«Almeno io mi rendo utile. Tu sei tornato a dormire qua solo per far stare tua figlia in un buco decente, quando ti tocca vederla.»

«Se accudire mamma e papà significa urlargli in faccia come fai tu… Pensi che non ti sento? Ci stanno gli spigoli, se devi sfogarti.»

Raccolgo le forze, mi alzo e mi metto in mezzo a braccia larghe.

«Smettetela. Riparto adesso, così riscendono le temperature, ok?»

Ginevra inarca la schiena all’indietro, incrocia le braccia sotto il seno e mi gela.

«Ci hai chiesto di ricominciare a giocare, ma tu quando avresti smesso? Sei la più piccola, t’hanno lasciato fare come ti pare. Noi i tuoi ventitré anni li abbiamo passati da vecchi. Non è manco colpa tua. La colpa è mia che mi meraviglio ancora.»

La sua lunga chioma nera e ondulata la avvolge mentre mi dà le spalle e lascia l’orto.

Anch’io esco dal campo e dal cancello di casa. Stefano mi parla dietro.

«Angelica. Non farci caso, la conosci. Più va avanti, più è peggio. Manco buongiorno la mattina, le si può dire.»

Non mi giro. Scuoto la testa guardando il vialetto bianco, diviso a metà dalla linea di ciuffetti d’erba su cui mi piaceva camminare in equilibrio da bambina.

«Ha ragione lei. Dopo il diploma sono scappata. Faccio la cameriera e a malapena mangio tre volte al giorno per non chiedere soldi a papà, ma studio quello che mi piace, finalmente. Scrivere mi salva le giornate, ogni tanto però la notte il petto mi fa male e non dormo. E allora il giorno dopo prendo il treno e torno, ma dopo mezz’ora me ne pento. L’ultima volta che sono stata bene dentro ‘sta casa e ‘sto paese pisciavo ancora a letto.»

Cammino, con lui sempre appresso. Arrivo sulla strada asfaltata, dove con gli altri bambini che abitavano qui intorno giocavamo a Schiaccia Sette la domenica pomeriggio. Urlavo e ridevo forte mentre colpivo o schivavo la palla, per non pensare alle materie, studiate poco e male, che il lunedì mi aspettavano al varco. Mi scanso al passaggio di due macchine. Ne passavano molte meno, allora. Solo adesso guardo mio fratello.

«Sergio, Veronica, Elena. Non tornano mai?»

«Ogni tanto. Come te.»

Annuisco. Mi prendo qualche istante per chiederglielo ancora.

«Davvero non vuoi venire con me?»

Mi sorride con gli occhi lucidi. Sentiamo un altro motore, poi vediamo la macchina della sua ex-moglie arrivare davanti casa.

Stefano mi risponde con un’alzata di spalle. Raggiunge l’auto. Mamma e papà escono e camminano svelti verso il portello posteriore. Da questa distanza, ora che li vedo ridere davanti alla nipotina saltata giù dal sedile, sembrano uguali a quando stavano bene e abbracciavano me.

Eva saluta gli ex-suoceri con due baci sulle guance; abbraccia Stefano, senza stringerlo. Separano la figlia dai nonni e lui se la mette a cavalcioni sulle spalle. Ginevra sta sulla porta, tutti le passano accanto per entrare. Restiamo io e lei fuori, a guardarci. Forse aspetta di sapere se ho intenzione di tornare in casa.

Le do le spalle e mi allontano.

Guardo le case dei nonni dei miei amichetti, e quella dei miei. Non conosco nessuna delle persone che ci vivono oggi. Sono giovani, alcuni stranieri. Tutti tranquilli, per i fatti loro. Quando ero piccola era un gran viavai la domenica, tanto che, nonni miei a parte, non ho mai capito chi abitasse dove. I vecchi dopo pranzo si portavano dietro le fiaschette di vino per bere tutti insieme da un cortile all’altro.

Quasi inciampo su un ramo d’ulivo lasciato a lato della cunetta sul ciglio della strada. Di nuovo i brividi ai polsi. Inspiro forte e deglutisco la saliva.

«Che hai fatto ai capelli?»

Ancora? Mi volto. Di fronte a me, nessuno. Abbasso la testa. Mia nipote. Ride e indica le mie punte fucsia.

«Che belli! Sembri un gelato! Cioccolato e fragola!»

Mi chino e la prendo in braccio. Infilo il naso tra i suoi ricci castani.

«Mmmh. Sono i tuoi a sapere di fragola, però. Che fai qua, Alice? Lo sanno che sei uscita?»

Punta il dito al cancello. Eva ci sorveglia. Le faccio cenno con la testa. Alice dondola la testa mentre parla.

«Mamma ha detto che potevo uscire fino a dove riusciva a vedermi. Che palle. A casa lei, a scuola le maestre a farmi la guardia. Una vita da pregiudicata.»

Esplodo in una risata.

«Ma quanti anni hai che già parli così?»

Gioca coi miei capelli e mi preme le dita sulle lentiggini.

«Sette. Ma perché piangi?»

Tiro su col naso, le mordo la mano.

«Non piango. Vuoi vedere una cosa?»

«Cosa?»

«Un orto dei pirati!»

Sgrana gli occhioni nocciola.

«I pirati piantano i fagiolini?»

«Sì. È tutto nostro. Siamo due pirati.»

«Aspetta, zia.»

«Che c’è?»

«Come fa a essere mio e tuo? Papà dice che te ne vai.»

Le bacio il naso.

«Ma poi torno.»

Inizio a correre, la faccio sobbalzare tra le mie braccia.

«Sei pronta? All’arrembaggio!»

«Sììììì!»

 

Racconto liberamente ispirato al brano “Domenica” di Chiamamifaro