Le scale del Lingotto | Indie Tales

Di Stefano Giannetti

Che cazzo di caldo. E meno male che siamo a ottobre. Amavo l’autunno perché dava tregua, ma ogni mese è un Giuda ormai. Ad agosto scorso per una settimana pareva… pareva quello che avrebbe dovuto essere adesso.

La verità è che sono io a non darmi tregua. Poteva esserci pure il clima autunnale più dolce oggi, potevo pure stare in montagna tra le foglie gialle, marroni e arancio, invece che a girare a vuoto tra i negozi del Lingotto. Sarei stato male comunque.

Noia bestia. Ho sempre paura che arrivi la sera senza che abbia combinato un cazzo di buono, senza che mi sia divertito, e puntualmente va come temo. Il sonno diventa l’unico rifugio, l’unico traguardo. Un alibi. Mentre dormi mica puoi fare scelte sbagliate, mica puoi pentirti di qualcosa.

Che potrei fare? Guardo da fuori La Feltrinelli, l’unico luogo che mi interessa davvero, qua. Meglio evitare. Ho troppi libri arretrati da leggere, rischiano di rimanere tali se continuo a farmi sedurre dai titoli nuovi. Potrei dare almeno un’occhiata, però. È presto per andare a deprimermi a casa.

Stop. Un momento. Ma quella è… No. Non può essere. Cioè, sì, può essere. Una volta ci viveva anche lei, qua. Se ci ho visto giusto, se quella che ho visto entrare in libreria e poi infilarsi verso destra è lei, so anche dove ribeccarla.

Ci provo. Tanto, se mi sono sbagliato, sarà stata solo un’altra giornata di merda.

Entro. Destra. Reparto narrativa. La ragazza di spalle ha un vestito rosso lungo e leggero, con maniche corte a sbuffo e un alto spacco lungo la gamba sinistra. L’abito ha un fitto groviglio di puntati di bianco, ricordano fiori o qualcosa del genere. Ha i capelli ondulati, castano chiaro, sciolti. Non faccio rumore. Le dita della sua mano scorrono tra i libri sugli scaffali con le lettere M, N e R.

Bingo. Posso palesarmi.

«Missiroli. Nevo. Rooney.»

Sussulta e si gira. I suoi occhi nocciola si fanno giganti per la sorpresa. Poi anche il sorriso cresce. Sembra diventata più grande. È diventata più grande. Solo, speravo non lo sembrasse.

«Ciao!»

Mi butta le braccia al collo e ride. Ride per come l’ho ricconosciuta? Profuma di mela verde. Sarà l’effetto Mandela, ma potrei giurare di averglielo già sentito addosso.

Si stacca, però mi tiene ancora le spalle. È radiosa, ma serena. Troppo. Io ho il cuore che vuole uscirmi dal petto. Se non mi stessi annoiando a morte, probabilmente nemmeno l’avrei seguita per accertarmi fosse lei. Per non rischiare di provare questo. Forse avrei sbagliato, o forse ho fatto uno sbaglio stupendo nel cercarla.

Scuote di poco la testa.

«Che ci fai qui?»

«Io ci abito. Tu che ci fai qui?»

Alza gli occhi al soffitto.

«Hai ragione. Resto qualche giorno. Matrimonio di mia cugina Elena. Te la ricordi?»

Annuisco. Non so più che dire. Lei ride a denti stretti e in silenzio, le spalle e il suo collo vibrano ai singulti.

«Caffè al Rosso. Che dici?»

Mi sforzo di sorridere.

«Andata.»

Usciamo da La Feltrinelli e andiamo verso la scala mobile, con me che le sto dietro e vedo solo la sua silhouette di spalle. Il resto, la gente, i negozi, le voci, non esistono più.

Si avvicina alla rampa. Salta. Sobbalzo dallo spavento.

«Ma sei scema?»

Atterra perfettamente quattro gradini più giù. Lieve, quasi non fa rumore. Come se non avesse peso. Il suo piede sembra non aver sgarrato di un millimetro. Avevo rimosso questa sua abitudine. Io davanti al nastro aspetto sempre il gradino successivo al primo che vedo formarsi, per scendere.

Si gira e tira fuori la lingua. Mi prende in giro.

«Sarò pure scema, ma tu sei un vecchietto.»

La stessa faccia con cui me lo diceva allora.

 

Si aggrappa con la mano libera al bancone del Rosso Caffè, mentre con l’altra tiene la tazzina appena svuotata vicino le labbra. Ha gli occhi chiusi.

«Mmh. Cazzo, quanto m’è mancato ‘st’espresso.»

Io l’ho trangugiato senza nemmeno far caso al sapore. È buono, lo prendo qui quasi ogni giorno, ma ora sono troppo distratto.

Mi picchietta l’unghia lunga e rossa dell’indice sulla fronte.

«Sei troppo distratto.»

Appunto. Continua a deridermi.

«A che pensi?»

Guardo le morbide sedute al centro dell’atrio, poi una delle uscite.

«A che ora venivamo a fare colazione qua, prima di fare la fila per entrare al Salone del Libro?»

Mi rivolge gli occhi chiusi in due fessure.

«Alle otto e trenta. Anzi no, Precisetti. Alle otto e venti. Perché tu eri ansioso. “Non è mai troppo presto per mettersi in coda, specie il weekend. Fidati, io ci sono cresciuto qua dentro.” Mi pare di risentirti.»

Diventavo ancora più pazzo di lei quando mi perculava. Se non ero già incazzato di mio, certo.

Si porta una mano alla bocca e guarda in alto.

«L’ultimo Salone a cui siamo stati…»

«Tre anni fa.»

Il suo volto si illumina.

«Giusto. Fu davvero fico. Quante corse tra un padiglione e l’altro. Avevamo incontri prenotati in sale che si trovavano agli estremi opposti ma a orari vicinissimi tra loro. Beccavamo sempre i posti a sedere per un soffio. Da pazzi.»

«Ricordo, sì.»

«Le ultime due edizioni come sono state invece?»

Cerco il portafogli per non incrociare il suo sguardo. La voce mi esce masticata.

«Non ci sono andato gli ultimi due anni.»

Pago la barista mentre la sento rispondermi nel modo più breve possibile.

«Oh.»

Dopo alcuni istanti a indugiare nel mettere monetine e portafogli a posto, trovo il coraggio di guardarla. Nel frattempo ha ritrovato la sua maschera vivace.

«Devo vedere un po’ di vestiti al piano di sopra. Se sei libero e la prospettiva non ti pare da suicidio, potresti accompagnarmi.»

Scrollo le spalle.

«Certo.»

 

Anche sulla scala mobile in salita si lancia verso il quarto gradino più in alto. La gente attorno si gira. Mi sbatto una mano in fronte. Manco i bambini lo fanno più.

«Ma devi farlo per forza?»

Si volta, per un attimo mi pare gelarmi con gli occhi. Poi mi fa una smorfia.

«Se dovevo farlo per forza non l’avrei fatto.»

Touché. Sospiro.

«Giusto.»

 

Siamo stati a Tezenis, Toosider, Nuna Lie, Desigual e altri negozi di cui non ricordo i nomi, nonostante io in pratica viva qui dentro.

Si è provata una marea di roba diversa, per ogni capo mi chiamava da dentro il camerino e io entravo a vedere come le stava addosso. Crop-top, t-shirt, vestiti e gonne a tubino cortissimi, bluse e camicette sobrie, ma anche altre che lasciavano poco sforzo alla mia immaginazione. Anzi, alla mia memoria. Rideva senza dirmi niente nel vedermi avvampare di fronte agli ampi spazi della sua pelle nuda e alle trasparenze. In qualche angolo del mio cervello mi piace pensare che mi abbia portato qui apposta per testare le mie reazioni, ma non è così. Lo vedo dalla sua faccia, conosco ancora i movimenti di ogni suo muscolo. È distaccata, tranquilla. È un buon segno, significa che le cose non si complicano. Dovrei esserne felice. E invece.

Quando ha deciso di smettere col reparto abbigliamento, ho ringraziato tutte le divinità possibili. Torniamo in corridoio.

«Alla fine non hai comprato un cazzo. Dopo un’ora di cambi d’abito.»

«Ci penso.»

«Non ti piaceva niente?»

«Al contrario. Mi piaceva tutto.»

«E allora potevi prendere qualcosa.»

«Tu che qua ci vieni spesso, ci lasci gli stipendi?»

«No. Librerie a parte, entro in un negozio solo se so già quello che voglio.»

Mi supera.

«Quello che desidero sta bene anche lì. Magari ce lo ritrovo, magari no. È stato comunque bello.»

Vero. L’impulsivo sono sempre stato io. Ma ora devo controllarmi. Perché questa mia voglia violenta è di certo un inganno della nostalgia e della visione del suo corpo fin troppo scoperto di poco fa. Mi eccitava quando si vestiva succinta per me. E quanto mi facevano incazzare gli occhi degli altri appiccicati a lei. Non so se lo notava, ma non gliel’ho mai detto. Non volevo che le pesasse, almeno quello.

Torna indietro, mi prende per un braccio.

«Guarda. Youngo! Andiamo!»

Mi lascio trascinare fino alla sala giochi.

«Proviamo quello, è troppo buffo! Come si gioca?»

Mentre cambio le monete in gettoni alla macchinetta, seguo la direzione indicata dal suo dito.

«Rabbids? Ogni giocatore ha una pistola con la ventosa in punta di colore diverso, e deve sparare a quei conigli orrendi sullo schermo. Non so altro.»

Saltella.

«Perfetto. Dai, vieni!»

Ci sono quattro pistole. Lei prende la rossa, la prima da destra. Potrei utilizzare quella azzurra dal lato opposto per giocare comodi, ma scelgo la gialla. La più vicina alla sua. Perché sono uno stupido. Perché così, a ogni suo balzo entusiasta, possiamo toccarci, strusciarci, spingerci. Ci sono due indicatori di punteggio sul display, del colore delle nostre armi strampalate.

«Stai perdendo, scemo!»

Lo so. Perché non sto guardando più il monitor, ma il suo viso felice. Solo io sto di merda. Solo io non ho superato niente. Mi irritava il suo modo di essere infantile, quando lo mostrava senza filtri in presenza di altre persone. Lei cercava di trattenersi e di ricomporsi, se dalla mia faccia capiva che ero in imbarazzo e contrariato.

Il suo essere sbarazzino mi spaventava. Mi sembrava potesse volare via dai miei radar. Come quando balza e plana leggera sulle scale mobili. Sempre troppo avanti a me. Darei tutto oggi per averla di nuovo così vicina e distante, come voleva lei. No. Ma a chi cazzo voglio raccontarla? Se fossi cambiato, anch’io oggi avrei voglia di ridere.

Lasciamo Youngo e ripercorriamo il corridoio a ritroso. Mi incalza facendo capolino con la testa di fianco a me. Di nuovo la mela verde. Sono i capelli, forse.

«Tutto ok?»

Mi schiarisco la voce.

«Sì. Senti, devo andare ora.»

Solleva le spalle. Mi sorride.

«Va bene.»

Mi abbraccia.

«Ci rivediamo?»

Poso le mani sulla sua schiena. Non voglio stringerla.

«Magari qua dentro, prima che riparti.»

Annuisce. Sa ridere anche con gli occhi.

«Tu dove esci? Io a Via Nizza.»

Esito.

«Oh. Io verso Mattè Trucco. Lato opposto.»

Tende le braccia e poi le lascia cadere.

«Ok. Allora… a presto?»

«S-sì.»

Mentre si allontana, la guardo un’ultima volta. Mi prometto che sarà l’ultima.

Dovevo uscire a Via Nizza anch’io.

Racconto liberamente ispirato al brano “Mezze Stagioni” di Peter White