Santacamilla | Indie Tales

di Stefano Giannetti

«Teti, e dai. Stai sempre a piagne.»

Asciugo lacrime e moccio col palmo della mano.

«N-non è vero!»

Fabiola mi guarda con gli occhi grigio-celesti aperti a metà. Si lascia scoppiare in faccia un gigantesco pallone di chewing-gum.

«Te sei magnata ‘n’irrigatore, allora? Te dormi in piedi, però. Non t’aspettavi che quella testa di cazzo di Fabio ti metteva le corna? Compariva la scritta stronzo in sovrimpressione quando arrivava. E poi se non glie davi sette sòle su sei quando voleva fa’ qualcosa perché dovevi studià che t’eri fissata con ‘sta media dell’otto, magari nun se scopava ‘n’altra!»

Mi guardo attorno, più di qualcuno s’è girato. Siamo pur sempre davanti il cancello della scuola.

«Parla piano. Me lo sogno l’otto. Non c’ho testa per studiare, non ho combinato più niente. Mamma e papà m’ammazzano.»

Fabiola si ravvia la lunga e liscia chioma bionda dietro le spalle.

«Addirittura.»

«Peggio. Mi terranno in vita per rinfacciarmi le pagelle di Virginia delle superiori e i suoi punteggi a Tor Vergata. Sarò sempre la sorella uscita male.»

«Hai finito? Piantala de stà a sentì gli altri. Fai come me. Sempre promossa co’ due debiti, mai sudato. Studio l’anno prossimo che è il quinto. I cavalli da corsa se vedono alla fine.»

«Senza punti di credito sei un cavallo a dondolo. Entriamo, va’.»

Il prof non è ancora arrivato e in classe è ancora tutto un Maracaibo. Sedute al banco, io e Fabiola continuiamo a elaborare il mio dramma.

«Teti, io nun te posso aiuta’, ma te posso da’ ‘na dritta per risalì almeno con gli scritti dove mettono i voti. Vai dalla Storpia.»

Le do una spinta sulla spalla.

«A parte che si chiama Camilla e la dovete finire di sfotterla. No. Me la dovrei studiare comunque, poi, quella roba. Sennò all’orale mi sgamano.»

«Ma risparmi ‘na fatica. Lei scrive, tu leggi. Rialzi la media in metà tempo.»

Mi gratto il caschetto nero.

«Non so. Quella ragazza c’ha una marea di richieste. Fa i compiti di tutti. Ma studierà per lei? Vabbè che con tutti i soldi che le daranno, che le frega.»

Fabiola mi risponde dopo un rumoroso sorso al succo di frutta, con le labbra ancora sulla cannuccia.

«Mica la pagano.»

«Che cazzo dici?»

«Giuro. La implorano. E lei li accontenta gratis. Se vede come piagni tu, te viene pure a spiccià casa.»

Sbuffo.

«Lascia perdere. Mi sentirei in colpa. Si fa il culo e la chiamano pure Storpia.»

«Non davanti a lei.»

«E vorrei vede…»

D’improvviso, un trambusto di sedie che si spostano e di scarpe che fischiano sul pavimento. Silenzio. Tutti seduti. Tutti in piedi e buongiorno in coro. La prof si mette davanti la cattedra, si aggiusta gli occhiali e apre una cartellina. Cazzo.

«Vi do le pagelle del primo quadrimestre. Non ci siamo. A metà di voi conviene rimboccarsi le maniche. E qualcuno che andava più che bene, è crollato di colpo. Se queste persone stanno avendo dei problemi e volessero parlarmene, possiamo incontrarci in separata sede.»

So che la prof si riferisce a me, dallo sguardo che ha mentre mi consegna il foglio diabolico. Lo apro, scorro da sopra a sotto e i numeri non mi sembrano reali. Un incubo. A malapena sto sulla media del sei. Vedo le scritte annebbiate, perché sto piangendo di nuovo. Mamma mi toglierà la parola, tutti a casa mi guarderanno schifati.

Fabiola scruta tranquilla la sua pagella.

«Cinque abbondante. E pure ‘st’anno scialla.»

«Fabi’.»

Si gira.

«Pure in platea piagni?»

«Portami da Camilla.»

La meta del pellegrinaggio di tutti gli studenti che chiedono grazie a Santa Camilla è la rampa di scale antincendio all’esterno di metà corridoio. Ci sto andando con Fabiola, che mi sussurra.

«Apri ‘sti rubinetti che se quella te vede disperata aiuta te prima di altri. Guarda che sta piena così, eh? Nun c’ha ‘n’amico ma clientela quanta ne vuoi.»

«Mi sento una merda a farmelo fa’ gratis. Ma se la pago e ci s’abitua mi sa che qua m’ammazzano tutti.»

La fila di ragazzi che aspetta il suo turno all’uscita d’emergenza sembra quella per un firmacopie a una fiera del fumetto.

«Oh, bionda!»

Ci voltiamo. Luigi e Moreno, due mosconi del quinto che ronzano attorno a Fabiola. Lei accelera prendendomi per il gomito.

«Raga, non c’ho tempo. Io e Teti abbiamo un’urgenza.»

Moreno la affianca.

«E noi pure ti diciamo ‘na cosa urgente. Anzi, vi diciamo.»

Luigi mi raggiunge dal mio lato e strizza l’occhio. Lo evito, guardo dritta. Moreno prosegue.

«Sabato, casa di Guglielmo. Ci vanno tutti, ma lui vuole più di tutti. Una cosa tranquilla.»

Fabiola lo spinge indietro.

«Come no. Ti ritrovano gli sbirri quattro giorni dopo.»

«Frigidona. Non ti sai divertì.»

«E tu lo sai se ti diverti? Te lo ricordi? Ciaoooo!»

Corriamo via per inchiodare dietro gli ultimi quattro ragazzi in fila.

«Tocca quasi a te, Teti.»

Piagnucolo.

«Non vieni con me?»

«No. Così vai nel panico e le fai più pena.»

«Ma che è ‘sta storia di farle pena?»

«Si lascia impietosire facile. Ma non farti intenerire tu dalla sua storpiatura.»

«A me spiace che viene sfruttata. E non è storpia. Zoppica un po’.»

«Un po’? È proprio storta. E quando parla pare che ci sta uno invisibile che le tira la guancia ogni tre secondi. Dicono che non c’è nata. È stata la troppa roba.»

Trasalisco.

«Si droga?»

«Pare che ha smesso, ma quella se faceva i cocktail con qualsiasi cosa, pure co’ le pastiglie anticalcare pe’ la lavatrice.»

«Bah. Tutte palle per ricamare la storiella attorno ai suoi difetti fisici.»

«Può darsi. Infatti mi sembra esagerata quella voce che dice che a undici anni ha mischiato tutte le pasticche che ha trovato nel cesso, se l’è calate e è collassata davanti ai genitori.»

Mi si bagnano gli occhi.

«M-mi stai a fa sentì peggio.»

«Meno male. È il turno tuo.»

Mi dà una spinta. Varco la porta barcollando. Camilla è seduta sui gradini metallici. Indossa un tubino verde chiaro, senza reggiseno. Ha i capelli castani lisci, le ciocche davanti le arrivano alle tette, gli occhi verdi sono contornati pesantemente di nero. Ci guardiamo per due secondi. Arrossisco.

Il suo sguardo ha un nonsoché di familiare.

La sua guancia sinistra si alza a scatti, trascinando metà della bocca e strizzandole l’occhio.

«Ci-ciao.»

Solo per questo la chiamano Storpia? Pezzi di merda.

«Ciao. Sono Teti.»

Sorride, pare intenerita. Forse Fabiola aveva ragione.

«Bel nome. Che ti serve?»

Ripenso alle parole di Fabiola. “Nun c’ha ‘n’amico ma clientela quanta ne vuoi”. Non posso darle tutta la roba che c’ho da recuperare, ma devo portare qualcosa di decente a casa subito dopo quella Caporetto di pagella. A papà verrà un infarto, mamma mi cancellerà dallo stato di famiglia e Virginia mi girerà attorno su un piedistallo a rotelle.

«Te-teti, scusami. La ricreazione sta per finire.»

E poi non sarò io a fare la differenza coi miei compiti, non le ho detto io di fare volontariato.

Ma i suoi occhi… Dai, cazzo. Apro lo zaino.

«Scusa tu. Mi faresti queste versioni di Latino e Greco?»

Tende un braccio bianco e magro verso il mio faldone. Non balbetta sempre.

«Certo. Per quando ti servono?»

«Settimana prossima?»

«Tranquillamente.»

Mi esce un miagolio.

«Ma voglio pagarti, Camilla.»

Sgrana un occhio mentre l’altro lampeggia.

«C-che?»

«Non è giusto che lo fai gratis.»

Scuote la testa.

«To-torna in classe e fammi sapere se ho fatto tutto bene, poi.»

Mi arriva uno scossone dietro la schiena che mi manda con le ginocchia a terra. Guardo in alto, una tipa alta e mora mi fulmina.

«Quanto cazzo ci metti? Mica ci stai solo tu.»

Mi mancano le forze per rialzarmi. Osservo la stronza che va da Camilla con cinquanta euro in mano. Allora qualcuno la paga?

Camilla tira fuori dallo zaino due bustine, una contiene l’erba e l’altra tre pasticche, due gialle e una viola. La cavallona se ne va senza parlare.

Camilla mi scruta perplessa.

«S-stai bene? Se ti servono erba e paste devi pagarmi, perché quasi tutti i soldi vanno a chi me le porta.»

Non posso crederci. Mi rialzo, tengo la testa bassa mentre mi spolvero i jeans per nascondere le lacrime. Le do subito le spalle.

«No, grazie. Ci vediamo.»

Corro per il corridoio, travolgo Fabiola. Si spaventa.

«Oh, basta piagne! Io non te li faccio i compiti. Allora?»

La trascino verso la classe. Parlo piano tra i singhiozzi.

«Fa pure la pusher. Quasi gratis.»

«Lo so. Le hai dato le cose tue?»

«Le versioni di Latino e Greco.»

«Che? E tutto il resto?»

«Non me la sono sentita. Io non la capisco.»

«So’ io che nun capisco a te. Te sei messa a fa’ la santa co’ la santa. Ma a casa tua il martirio durerà di più.»

Fortunatamente la gogna a casa non è stata lunga, grazie all’ottimo lavoro di Camilla e a due voti discreti di altrettanti orali tattici. Mamma ha spiccicato la pagella dal frigo che faceva da promemoria di quanto dovevo vergognarmi e stamattina ha preparato la colazione pure per me.

Ho battuto il piede nervosa sotto il banco per tutte le prime tre ore. Appena ha suonato la ricreazione sono schizzata da Camilla. Dovevo essere la prima, per ringraziarla e tenerle compagnia, prima che venisse assalita dai bastardi.

In questi giorni ho capito perché i suoi occhi mi turbavano: sono come i miei quando penso alla mia famiglia, o a Fabio che mi tradiva.

La mia benefattrice è al suo posto sulle scale. Le corro incontro.

Mi sorride.

«C-ciao. Come è andato tutto?»

Balbetto peggio di lei.

«Fa-fantastico. Sto tornando in carreggiata grazie a te.»

Spalanca entrambi gli occhi. Insieme.

«Ne sono felice.»

Che carina. Ma non devo commuovermi.

«Non puoi pure spacciare, però.»

Si alza, zoppica pesante. A ogni passo sembra stia per cadere sul lato sinistro.

«T-ti ringrazio per il pensiero. Ma qua non mi sgamano.»

La fermo tenendole le spalle.

«Non sgamano nessuno finché non lo sgamano. E comunque, cazzo, quasi non ti pagano manco questo.»

«Soldi, pochi. Ma se dico a chi mi porta la roba che mi serve il pranzo o una ricarica telefonica, ci pensa lui.»

Lo dice con un’innocenza che mi fa cadere le braccia. Sento vociare, mi giro. S’è già formata la fila di fedeli. Non posso andare senza aiutarla. Pensa a qualcosa, Teti.

Mi batto un pugno sul palmo dell’altra mano.

«E io ti offro la cena. Stasera.»

«Eh?»

«Alle sei, davanti al centro commerciale. Ok?»

Resta di stucco.

«O-ok. Ora scusa, ma devo lavorare.»

Camilla è fissata coi tubini. Non ha provato altro nei negozi d’abbigliamento e pure oggi ne indossa uno giallo con un giubbotto di jeans sopra. Seduta con me al Mac, litiga col coperchio del vasetto del ketchup. Il contenitore si ribalta nel vassoio. Rido, arrossisce. Poi ride pure lei. I suoi occhi oggi sono diversi. Scommetto che se li guardo, sono diversi anche i miei.

«Tutto ok?»

«S-sì. Non ricordo bene come funziona qua.»

«Non ci vieni da tanto?»

Tira un lungo respiro.

«Una volta qualcuno usciva con me. Poi gli dicevo che fuori da scuola non spacciavo, e sparivano. I-i maschi hanno smesso di portarmi fuori appena hanno capito che non bevevo e che mi facevo sì, ma solo quando ne avevo davvero bisogno. Non c’è maniera di farmi sballare se non lo voglio io.

Mi hanno lasciata perdere, tutti.»

Mi sento bruciare la faccia mentre le rispondo.

«Io no. Io voglio uscire con te.»

Mi fissa attonita. Riprendo, più calma.

«Ma devi farmi una promessa.»

«Di-dimmi.»

«Non devi fare più favori agli altri.»

Aggrotta la fronte.

«Solo a te?»

«Nemmeno a me.»

Ora mi rifugge e si perde nel disastro di ketchup sulla sua cena.

«Non posso.»

«Perché?»

«È co-complicato.»

Forse è troppo, pressarla così tutto in un colpo?

«Cazzo, Camilla. Almeno a spacciare, fermati. O… ti fai ancora?»

Ora sembra offesa.

«Ho smesso. Cioè, c-ci provo.»

«Camilla.»

«Ci sto riuscendo. È complicato.»

Chiude l’involucro del suo Big Mac mangiato a metà. Indugia con la mano sulla scatola.

«Ok, Teti. Basta con la roba. Però la partita che ho la devo piazzare.»

Gomiti sul tavolo, mi premo forte le mani alle tempie. Chiudo gli occhi, sospiro, li riapro.

«Dammene metà.»

Sussulta.

«Che?»

«Metà la vendo io. Finiamo prima.»

«N-no. È pericoloso.»

«Solo per me è pericoloso?»

Solleva la testa, emette un gemito.

«Va bene.»

Si china verso di me e mi penetra con lo sguardo.

«Ma solo a scuola.»

Mi alzo e la abbraccio, senza pensarci. Mi viene da piangere ma rido. La sua pelle è caldissima. Una lacrima scappa a lei.

È passata la ricreazione, ma non ho mangiato. Quando ceno al Mac, la mattina dopo sto uno schifo. Do una gomitata a Fabiola, al banco vicino a me.

«Che vuoi, Te’?»

«Non farti sentire. Ho venti paste.»

«Mica è il compleanno tuo.»

Le mostro la bustina sotto il banco, e l’altra con l’erba.

«Ma che ca…»

«Zitta. Sto aiutando Camilla a uscire dal giro. Solo queste e ho finito.»

Ride a bocca chiusa.

«Tu che spacci, roba da pazzi. E quanto hai piazzato?»

«Ancora niente.»

«Mo’ ti riconosco.»

«Dici che Luigi e Moreno ne prenderebbero un po’?»

«Un po’? Ci fanno l’aperitivo con quelle. Hanno organizzato ‘na serata domani con certi che nun te raccomando. Dagliele e sei fuori da ‘sta cosa.»

Mi porto l’indice alla bocca.

«Grande. Ma se la roba esce da là, dalla festa, sono casini. Camilla già m’aveva detto di restare a scuola. Non voglio farla rischiare.»

Ora ride più forte. Si pizzica uno dei tre piercing sull’orecchio.

«E scialla! Ti pare che non li conosco? Le quattro cazzate che hai in mano se le fanno in mezz’ora là, fidate.»

In effetti i due poi mi hanno ribadito la sua versione. Non vedo l’ora di dirlo a Camilla. Il prossimo passo sarà farla smettere coi compiti e qualsiasi cosa faccia per gli altri.

Camilla m’ha scritto che oggi pomeriggio si deve vedere col pusher al parco. Gli dirà che hanno chiuso. Pure io sto al parco, nascosta dietro un albero. Devo vedere e sentire. Ho paura che non riuscirà davvero a dirgli di no, di punto in bianco. La vedo che aspetta su una panchina, ma non arriva ancora nessun… Oh, cazzo. Che gli è successo a ‘sto smilzo? Ha un occhio gonfio e uno spacco sulla fronte che gli impiastra la faccia di sangue. Corre verso Camilla, è lui! Merda, ma che, le vuole menare?

Mi avvicino di qualche albero.

Camilla scatta in piedi.

«Enzo! Che-che hai fatto?»

Il secco sputa un grumo di sangue.

«Ma che hai fatto tu! La roba è finita in un rave dall’altra parte della città!»

«Qua-qualche pasta esce, è sempre successo.»

«Venti paste nella zona del Sentenza? Mai!»

Camilla fa un passo indietro, lui le si avvicina.

«Er Sentenza è venuto e ci ha sfasciato mezzo locale. Ha detto a Ugo che la prossima volta che la merda sua sconfina rompe pure lui. E Ugo ha rotto me. Che hai combinato?»

«Nie-niente. Ma come fate a sapere che era roba vostra quella del rave?»

Gli porge un fazzoletto, lui si pulisce e bofonchia.

«Era una partita… strana. Undici persone so’ finite all’ospedale con gli stessi sintomi di quelli che si so’ calati le paste da noi al locale la settimana scorsa.»

«Ma che… E me le avete fatte vendere lo stesso?»

«Oh, io non c’entro! Non conto un cazzo, se da ‘sta faccia non s’è capito! Abbiamo sputtanato Sentenza, mo’ là pensano che la merda era la sua! Non possiamo prenderci i posti degli altri! Hai dato mezza partita a ‘na persona sola, vero? Che avrà pure subappaltato, scommetto! Ci starà ancora qualcosa in giro.»

Camilla trema, si vede da qua.

«N-no! Ti giuro che…»

«Cazzate. Ugo m’ha detto di trovà ‘na soluzione pe’ calmà Sentenza! Che dobbiamo tenercelo amico! Che faccio? Dimmelo tu che m’hai messo ‘sti cazzi pe’ culo!»

Non dovevo fidarmi di quella sciallona di Fabiola. Il pusher scatta verso Camilla, lei indietreggia zoppicando e cade sul prato.

«No!»

«Te-teti?»

«E questa chi è?»

Sono uscita allo scoperto d’istinto. Credevo volesse picchiarla. Mi sa che ora le prendo io.

«Colpa mia. Scusate. Ho dato tutte le paste e l’erba a due compagni di classe.»

Enzo mi si fionda davanti, digrigna i denti storti e mi afferra per il collo della maglietta. Urlo. Mi scaraventa sulla panchina. Il cuore mi batte a mille. Penso che muoio. Parla a Camilla, ancora a terra.

«C’hai i dipendenti? Vuoi che venga ammazzato?»

Lei lo fissa. È bianca, piange senza parlare. Con gli occhi spiritati e con la mano che trema così forte da obbedirle a fatica apre il suo borsello, prende quattro pasticche dalla bustina e le ingoia tutte insieme.

Mi alzo e le scrollo le spalle.

«Sputa! Vomita! Avevi detto che smettevi!»

Pure il secco è paonazzo.

«Cretina, vai in overdose! Mica erano nostre?»

Solo ora si alza, gli arriva a pochi centimetri. Non l’avevo mai vista così stravolta.

«Sentenza. Fatelo venire qui. Pure stasera.»

Lui ride nervoso.

«Cazzo dici? Già t’ha fatto effetto la roba?»

Lei continua impassibile.

«Fallo venire. Ti prometto che tu e Ugo siete salvi.»

Si guardano zitti. Poi lui apre la bocca a metà e annuisce.

«Capito. Ma non calarti più niente. Andata?»

«A-aspetta.»

Camilla guarda me prima di riprendere.

«Risolto questo, con voi ho chiuso.»

Lui ha il fiatone e gli occhi fuori dalle orbite.

«Come ti pare. Arrivaci a stasera, però.»

Dileguato il pusher, mi avvento su Camilla.

«Oh! Come stai?»

Mi scansa, ha gli occhi gelidi.

«Vattene.»

«Ma… Mi spiace, non pensavo che… Non volevo fare casino…»

Scuote la testa, il suo tic è più accentuato. È arrabbiata con me?

«Te-teti. Vai a casa e restaci. Non sono cose per te.»

«Non posso, ti sei strafatta!»

Mi tuona addosso.

«Ora!»

Corro via in lacrime.

Tornata a casa sono crollata per la stanchezza. Ho sognato Camilla fuori di testa che spaccava cose a caso a scuola, poi cadeva a terra con la schiuma alla bocca e moriva.

Sono tornata al parco, non esiste che lei incontri un boss criminale da sola. Spero non sia già tardi. Nel parcheggio c’è solo una macchina nera. Intorno, nessuno. Devo verificare nel punto dove stavamo nel pomeriggio.

È buio, ho paura.

«Dove cazzo vai?»

Appunto. È Enzo.

«Perché sei qua?»

Si avvicina alla macchina, getta via una cicca di sigaretta.

«E tu? Non immischiarti nei cazzi nostri. La vedi ‘sta faccia? È colpa tua.»

Non devo dare a vedere che tremo.

«Dov’è Camilla?»

Guarda il suo cellulare, distratto.

«A consolare Er Sentenza, laggiù.»

«Che significa?»

Ora lascia il telefono, mi afferra un braccio e grugnisce.

«Che non ti muovi da qua e non mandi tutto a puttane. Non l’ho portato per farci ammazzare tutti e tre.»

Mi sento cadere le gambe.

«A-ammazzare? Che dici? E poi perché s’è fatto portare da te?»

«Ammazzare, sì. L’ho dovuto portare io perché se l’avessi preso per culo, quando gli ho detto che poteva scoparsi Camilla finché voleva…»

Fa il gesto della pistola puntato alla sua fronte. Mi tengo la testa con entrambe le mani.

«Ma quale scopare?»

«Allora non la conosci. Quella appena vede uno alterato o disperato va nel panico e fa di tutto per farlo contento. Pure Ugo se l’è fatta.»

Ghigna.

«Devo incazzarmi di più con lei, o magari devo frignare come te.»

Guardo la sua bocca schifosa che ride e penso a Camilla che si prende i cazzi di ‘ste merde. Il mio pugno è nel suo stomaco prima che me ne renda conto. Si piega.

«Ahia! Troia, io ti…»

«Enzo! Che c’è’?»

La voce roca di un uomo. Enzo cerca di ricomporsi.

«Gli sbirri, boss. Mi hanno fatto domande e sono ripartiti. Non sono tranquillo.»

Mi dà un calcio al ginocchio mentre lo dice, per mandarmi via. Mi nascondo dietro un cespuglio poco lontano. Vedo solo la sagoma bassa e tozza del Sentenza.

«Andiamo.»

«Tutto bene, capo?»

«Per stavolta.»

Appena l’auto va via, corro per il parco cercando Camilla e pregando che Enzo mi abbia detto cazzate.

Eccola, sulla panchina di oggi, in un tubino rosso. È in ordine. Forse non è successo niente, forse hanno solo trattato.

«Camilla!»

Ha il trucco sbavato e gli occhi spenti. Spero sia l’effetto delle paste di oggi.

«D-dovevi stare a casa.»

Mi impietrisco.

«L’hai fatto davvero?»

Gira la faccia di lato.

«Guardami!»

Risponde sommessa.

«Non c’era altro modo.»

Si accorge che voglio darle uno schiaffo. Il mio braccio teso si blocca. Ora i suoi occhi sono di nuovo uguali ai miei.

«Ma-ma che vuoi da me?»

«Che la smetti! Non puoi spacciare e farti scopare per risolvere i problemi degli altri!»

Si alza.

«Non lo faccio per loro.»

La lascio proseguire.

«Qua-quando avevo undici anni, ho sbriciolato tutte le compresse che ho trovato a casa, ci ho fatto una pasticca grossa come un biscotto. L’ho mangiata e sono crollata davanti ai miei genitori. Avevo le convulsioni, la mia testa era lì ma pure altrove. Da quel poco che ricordo, mamma e papà erano impauriti. Mi abbracciavano. E si abbracciavano. Prima di quella sera litigavano sempre, e io prendevo le medicine che trovavo perché quando erano arrabbiati o non si parlavano stavo male. Dopo quella sera hanno smesso di litigare, almeno davanti a me.»

Non posso crederci.

«Tu aiuti la gente perché se la vedi triste o arrabbiata ti devi drogare per non pensarci?»

Le prendo il mento tra le dita.

«Non puoi accollarti i guai degli altri! Sono sciacalli, hanno capito che ti senti in colpa se non li assecondi!»

Mi scosta la mano.

«Ma-mamma e papà litigavano pure su cose che riguardavano me. Se non nascevo, magari andavano più d’accordo. A-a te non capita mai di pensare che gli altri sono scontenti per colpa tua?»

Mi mordo il labbro.

«Sì. Coi miei. Sempre.»

«E che fai per farli contenti?»

La bocca mi si inonda di saliva.

«Non riesco mai a fare contento nessuno. E piango. Solo questo so fare.»

Mi raccoglie una lacrima col dito.

«A-al centro commerciale hai fatto contenta me. Tu eri contenta?»

Singhiozzo.

«Sì. Eravamo contente.»

«Allora…»

«Allora abbracciami.»

Racconto ispirato ai brani “Pastiglie” dei Prozac+ e “Sister (Pastiglie)” di Chadia Rodriguez

Santacamilla è lo Spin Off del racconto La cura di Camilla che puoi leggere qui.