#restiamoumani | Indie Tales

Di Stefano Giannetti

«Maica!»

Una fitta dalla parte sinistra del petto. Mi succede ogni volta che mi sento chiamare. O meglio, mi succede a sentire il mio nome dalla mattina, quando scendo dal bus o dal tram per andare al liceo scientifico, fino al mio ritorno a casa il pomeriggio.

Tremo. Mi giro piano.

«Maica! Ma che, hai paura di me?»

Il respiro mi si alleggerisce. Mi tiro le bretelle dello zaino.

«Ciao, Ubaldo.»

Si avvicina e mi prende le guance.

«Chi ha reso questi occhioni celesti così tristi? Ridi, Maica! Guarda che cazzo di sole batte sulla città, oggi! Fa freddo, si gela. Stamattina sono andato già due volte col culo per terra per colpa del ghiaccio, mentre venivo qua. Eppure sembra primavera! Posso sognare di rivedere presto tette e cosce di fuori!»

Allarga le braccia, guarda il cielo e gira su se stesso mentre lo dice forte. Rido perché si sono girati tutti qua attorno, in piazza. Qualcuno è disgustato, altri si allontanano. Due ragazzi che conosco dell’ITIS battono le mani. Lo prendono per culo, ma almeno gli lanciano due monetine dentro il cappello marrone infeltrito, capovolto sul selciato. Ubaldo si mette una mano sul petto, allarga l’altro braccio a mano tesa e fa un inchino.

«Grazie, gentilissimi! Magari avere la vostra età e i vostri soldi! Ma… un momento! Ora ce li ho un po’ dei vostri soldi!»

I due indietreggiano, ridacchiando.

«Sì, ok bro. Ciao, eh.»

«Ciao belli.»

Scuoto la testa. Sorrido.

«Ubaldo, devo andare a scuola. Ci vediamo.»

Inarca la bocca all’ingiù e finge di strofinarsi gli occhi.

«Mi lasci così? Dopo la poesia che ho decantato per te?»

«Ah, era per me? Io non sarei così ansiosa di vedere le mie cosce.»

«Smettila. Sei solo un po’ troppo giovane. Come dite voi? CBCR

Sospiro. Estraggo cinquanta centesimi dal portafoglio di stoffa.

«Di più non posso. Alla mia prossima paghetta manca una settimana.»

Mi dà un buffetto.

«Tranquilla. Poi, se mi dice bene, magari passa l’amica tua. L’altro ieri mi ha dato una piadina e venti euro!»

Un lampo torna all’altezza del cuore.

«Ma magari s’ammalasse e restasse a casa un mese. E non è amica mia.»

«Mia sì. Ancora non ho finito di spenderli, quei soldi.»

Mi sento avvampare le guance.

«Che schifo. L’ha fatto per lei, mica per te! Io li avrei rifiutati.»

Ubaldo prima mi fissa, poi gonfia le guance e scoppia a ridere. Ora sono sicura di avere la faccia tutta rossa. I suoi occhi gialli, però, non danno più peso alle mie dichiarazioni infelici, perché hanno oltrepassato le mie spalle imponenti.

«Guarda chi ci sta! Il mezzo terrone!»

«Ma vattene affanculo, Uba’, va’.»

Un altro clochard, un po’ più giovane di lui, con gli occhiali e i capelli biondi arruffati, ci viene

incontro.

«Maica, ti presento Stefano. Ha lasciato il Lazio per venire qua a fare lo scrittore.»

Il barbone grugnisce. Mi stringe la mano senza togliersi il guanto e quasi senza guardarmi.

«Ero venuto pe’ studia’, stronzo.»

«Convinto che nel frattempo riuscivi a campare qua.»

«Mica so’ morto. Purtroppo.»

«Sì, vabbè. Vai a morire da quell’altra parte, però. Che qua mi fai concorrenza. Forse tra poco passa un’amica mia e… conoscente di Maica che mi svolta la giornata.»

Stefano sventaglia una mano, sbuffa e attraversa la strada. Si siede su una di quelle sfere di cemento o pietra o quello che è, che costeggiano la piazza.

Ubaldo è stato profetico, porca troia. Vedo Elettra scendere dal tram alla fine di via Po. Ma lei non ha visto me. Devo filare prima che passi di qui.

Ma, un momento. Sta con Christian? Puttana. Ci starà provando con lui perché ha saputo che una sera è uscito con me. Capirai, un seratone. Stava tutto il tempo col cellulare in mano a riprendere sé stesso e noi due insieme. Ma più sé stesso. Caricava tutto su Instagram e TikTok. Non mi sono manco voluta rivedere, gli ho tolto i follow. E sono sicura che non se n’è manco accorto. Come sono certa che non si sono accorti che mi trovo qui. Non c’è un secondo da perdere.

«Maica! Dove corri? Tutto a posto?»

Non mi giro nemmeno per rispondergli. Devo risparmiare fiato. Una che pesa ottanta chili ed è alta un metro e sessanta, cazzo se deve centellinare i respiri quando va di fretta. Cammino veloce. Non corro perché ho paura che darei nell’occhio. E perché sento le ascelle che si bagnano. Le cosce danno già abbastanza fastidio sfregando tra loro a questa velocità. Non corro e sto già sudando. Porca merda, mi sta venendo da piangere. Ho messo quella felpa Nike rosa chiaro che mi piace tanto da un’ora e già puzza da fare schifo. Ha due pozzanghere appiccicose sotto le braccia. Lo sapevo che dovevo comprarla nera, ma mannaggia la puttana io devo fare la figa che non sono.

Sono patetica. Hanno ragione loro. Avevano ragione Elettra e gli altri della classe quando mi dicevano che sono una scrofa. Basta un niente, sudo e puzzo. Sono più sudicia che sudata. Hanno fatto bene quella mattina lei, Lucio, Enrico e Fabio ad aspettarmi dietro la porta dell’aula e a svuotarmi addosso tutti insieme le loro bombolette di deodorante spray. Fu una bella idea quella di creare degli sticker per WhatsApp con la mia faccia, da usare ogni volta che, scrivendo in chat, dovevano indicare qualcosa di disgustoso o una bestemmia-rebus, dove io stavo a simboleggiare il porco. Sbagliai a restarci male quando a febbraio mi chiesero come avessi fatto a scappare dallo stalliere. Che di solito tra dicembre e gennaio i maiali li ammazzano.

Dovrei ringraziarli. Meglio saperlo ora che faccio schifo, ora che sono ancora piccola e posso farci l’abitudine. Sarò pronta ad avere solo nemici, tutti migliori di me, da adulta. Sarò pronta a combattere. Non come Priscilla dell’ITC che ha tentato il suicidio per un pompino fatto a uno che doveva vincere una scommessa, l’ha ripresa col telefono e ha fatto girare il video.

Non riesco nemmeno a correre senza diventare una fogna. Quindi, meglio non farlo. Mi nascondo dietro una colonna del portico. Butto lo zaino per terra. Il fresco del pilastro rinfranca la mia schiena attraverso i vestiti.

«Maica! Maica, aspettaci!»

Cazzo. Mi hanno vista. Arrivano. Non ce la faccio a riprendere la camminata sportiva ora. Mi raggiungerebbero in un istante. È finita. O forse no. Non ancora.

Ubaldo va incontro a Elettra. Lei gli sorride, parlano un po’. Christian la tira per una manica del piumino bianco e le indica Stefano, dall’altra parte della strada. Elettra si accommiata da Ubaldo alzando un braccio e va a fare conoscenza del nuovo senzatetto. Ma che succede? Perché hanno liquidato di colpo Ubaldo? Torno indietro quasi fino all’incrocio, mi metto dietro la prima colonna. Voglio sentire, capirci qualcosa. Tanto, sembrano essersi tutti scordati di me.

Elettra stringe la mano di Stefano, sbigottito dal calore di quella ragazzina linda e candida nei suoi abiti firmati e dalla pelle chiara. Christian li sta riprendendo col cellulare.

No. Pezzi di merda.

«Ciao! Io sono Elettra.»

Il clochard annuisce, poi, sospettoso, butta lo sguardo su Christian. Lei lo incalza e riottiene la sua attenzione.

«Non hai un nome?»

«Stefano.»

«Stefano, avresti un euro da prestarmi?»

Lui si gratta la barba incolta.

«Sì, però guarda, ho lasciato gli spicci nel Maserati. Se m’aspetti ‘n’attimo qua te li vado a prende.»

Mi tappo la bocca, perché una risata, in suono di squittio, m’è sfuggita. Per fortuna non se ne sono accorti. Elettra non demorde.

«Dai. Non voglio prenderti in giro. Sto morendo di fame, devo comprarmi un panino, o un cornetto. Prima di tornare mi farò ridare l’euro da mio padre, che lavora in quel negozio lì, lo vedi? È ancora chiuso, ma papà sta arrivando ad aprirlo.»

«Daglielo, Ste’!»

Ubaldo gli suggerisce il da farsi perché sa già cosa sta per succedere. Lo so pure io. Stronzi. Il giovane barbone si mette una mano in tasca, poi la tira fuori con la moneta che porge a Elettra. Ha ancora l’ombra del sospetto sulla faccia, lei invece è un sole.

«Grazie! Grazie davvero! A tra poco!»

«Sì, sì. Nun corre.»

Invece schizza, e Christian con lei, verso il portico di fronte. Stefano e Ubaldo si parlano con gesti delle mani. Il primo gli chiede spiegazioni e il secondo gli risponde di aspettare.

Non è lunga l’attesa. La troietta con reporter al seguito gli è già tornata davanti. Ha un cartone da pizza fumante in mano. Glielo consegna. Stefano è basito.

«Hai voluto ‘n’euro per comprarmi ‘na pizza? Ma costa di più.»

Lei gli dà una pacca sulla spalla.

«Tranquillo. E questi sono per ringraziarti per la generosità e per la fiducia nei miei confronti.»

Gli mette quella che da qui sembra una grossa banconota nelle mani e gliele chiude. Lui le riapre. Strabuzza gli occhi. La guarda e scuote la testa. Lei lo abbraccia, ma senza stringerglisi. Christian gira attorno ai due come se stesse utilizzando una steady cam, invece di un semplice telefonino.

Lasciando Stefano attonito, i miei due compagni di classe vengono da questa parte. Si sta facendo tardi e dobbiamo entrare a scuola.

«Signorina! Per me non hai niente oggi?»

Elettra si ferma e si gira verso Ubaldo. Lui alza le mani come avesse una pistola puntata contro, per scusarsi di aver osato chiamarla ad alta voce. Lei riprende a camminare e a chiacchierare con Christian.

«Oh! Se non vuoi aiutarmi, fa niente! Ma almeno saluta!»

Resto sbigottita dalla reazione incazzata di Ubaldo. Non che non abbia ragione. Solo, non me l’aspettavo. E anche se sapevo, invece, che Elettra avrebbe continuato a ignorarlo senza più voltarsi, inizio a tremare. Mi mordo le labbra. Stringo i pugni, una vampata rovente mi parte dal petto e arriva sotto gli occhi. Bastardi. Ora ce l’ho il fiato per correre. Ma non a scuola. Verso di voi.

«Oh, Maica! Ma allora stavi qua!»

Christian le dà l’assist.

«Perché non rispondevi?»

Era dalla mattina dopo la nostra uscita che lui non mi rivolgeva la parola. Sento di essere tornata rossa. Conficco le unghie nei palmi delle mani.

«Pe-perché siete-siete due bestie!»

I due si scambiano uno sguardo ad occhi sbarrati. Lei manda in dentro le labbra. Le sta venendo da ridere. Trasforma la smorfia in un sorriso contenuto.

«Ooohiii. Maicuccia, che ti prende oggi? Hai fumato?»

«Ma-ma che prende a te! Non ti sei cagata per niente Ubaldo, l’altro giorno sembravi volerlo adottare!»

Si stringe le spalle e scrolla la testa, cerca di nuovo la complicità di Christian.

«Il primo barbone, dici? Gli ho dato venti euro l’ultima volta! Vorrei sapere quante volte gli è capitato! Tu che a momenti ti ci fidanzi, quanto gli dai?»

«Ma vaffanculo!»

Respiro affannata. Christian sventola la mano come si fosse scottato e mette le labbra a culo di gallina, per provocare Elettra. Lei stringe le palpebre, schiude la bocca mostrando gli incisivi bianchi e dritti.

«Scusa?»

«Ti serviva un poveraccio nuovo per il video del prestito di un euro, visto che quello con Ubaldo già lo avevi caricato su TikTok! È da malati!»

Mi viene incontro coi pugni ai fianchi. Piedi saldi a terra, mi impongo di non indietreggiare.

«Uno: può essere un veicolo per incentivare gli atti solidali; due: secondo te loro pensano al mio profilo? Cazzo, muoiono di fame. Non hanno niente!»

Mi salgono le lacrime. Non devo piangere, che già così ho paura non si capisca molto di quello che dico.

«E tu gli togli pure la dignità! Come… come hai fatto con me!»

Mi dà una spinta, dopo due passi all’indietro riesco a fermarmi. Christian ci separa con un braccio.

«Oh, freddati, Elettra. Ci guardano.»

Sulle guance bianche di lei iniziano a crescere due macchie rosacee.

«Preferisci tornare a questo, allora. Eh, Maica? Hai nostalgia di quando ti prendevamo a spinte e cazzotti sulla schiena? Di quando alla fermata della corriera ti lanciavamo dietro i sassi per farti correre e dimagrire?»

Gli occhi si bagnano, ma non me ne frega più niente.

«Sì! Quando mi sono rivista nei tuoi video dove facevi l’amicona con me e con quegli hashtag #noalbodyshaming, #noalbullismo, #friendship, mi sono sentita peggio di quella volta che mi hai messo la catena di salsicce nello zaino, o di quando mi avete recintato il banco col nastro bianco e rosso e i cartelli biohazard

Elettra ride isterica.

«Porca puttana, ma davvero fai? Ti ho salvata! Da quando esci con me nessuno ti ha più dato fastidio! T’ho apparecchiato pure un’uscita con ‘sto stronzo qua. Avevo capito che ti piaceva.»

Non do tempo a Christian di reagire allo stronzo di lei, perché strillo e piango. Mi sento gonfiare dalla bocca dello stomaco alla gola e scoppiare.

«Bastardi! Vi siete cagati addosso quando Priscilla voleva ammazzarsi per il video del pompino e avete iniziato ‘sta pantomima. Prima con me, poi con quei morti di fame! Che ne sarà dei clochard senza la vostra beneficenza, quando sarà passato il trend?»

Mi spinge ancora più forte sulle clavicole. Mi fa cadere. Non ci vedo più. Non penso. Mi rialzo, prendo la rincorsa e le restituisco il regalo. Va molto più indietro di quanto è riuscita a spostare me e cade male, con le gambe all’aria. Troia, lo sapevi che sono una scrofa. Dovevi aspettarti che sono forte quando carico. Mi sento le scosse nella braccia. Da un lato vorrei pestarla a sangue. Dall’altro desidero solo non vederla mai più.

Elettra mi si para davanti, paonazza e coi capelli arruffati.

«Quindi non vuoi più la mia amicizia?»

Scrollo le spalle e le faccio il verso.

«No, grazie. Ne ho visualizzato i contenuti e metto dislike

I suoi occhi lanciano fiamme. Mi grida contro mentre cammina a marcia indietro.

«Allora peggio per te! Io fingerò che non esisti, ma ora che smetterò di difenderti, non posso garantirti che gli altri non tornino a darti guai!»

Questa è l’Elettra che conosco. Non quella che mi chiamava amore. Il torace mi fa meno male nel sentirla di nuovo sincera. E nel vedere che s’è accorta solo ora di essere stata ripresa da Christian col cellulare.

«Cretino, che cazzo fai? Cancella subito!»

Lui ride.

«Sei scema? È più figa di un film e di qualsiasi video abbiamo fatto finora, ‘sta roba!»

Lei cerca di soffiargli il telefono ma lui solleva il braccio e indietreggia.

«Stronzo, non puoi pubblicarlo! Ci stai pure tu in mezzo a ‘sta storia!»

Christian imita il becco di una papera che si apre e si chiude con la mano e scappa via sghignazzando verso la fermata del tram. Lei lo rincorre. Forse pisciano la scuola oggi.

Il sudore mi si è gelato addosso. Mi fa schifo tenere le braccia appiccicate al corpo. Stare così per sei ore sarà un incubo. Quasi quasi torno a casa. Poi le prendo da mamma, però. Lei non sa che guerra è per me andare a scuola.

Non so che fare. A parte rimettermi a piangere, seduta sul marciapiede. Finché ho la vista distorta dalle lacrime, ho la scusa per non poter fare nient’altro.

Sento gridare Stefano, alzo la testa.

«Uba’, tu quei due li conosci! E se li denunciamo per averci ripresi? Poi sì che se l’annamo a magnà ‘na pizza!»

 

Racconto liberamente ispirato al brano “Polaroid” de La Municipàl