Non sentiamo la fine | Indie Tales
Di Stefano Giannetti
“Non posso passare un solo altro giorno così.”
Sono queste le ultime parole che ti ho sentito dirmi. Poi i botti. Continui a guardarmi, Eva. La tua faccia è bianca e rossa, come i tuoi occhi. Hai i capelli arruffati. Da quando la raffica di spari è iniziata anch’io ho gridato, come stai facendo tu. Ho urlato che ho fatto del mio meglio, che non mi sei mai davvero venuta incontro, che si parla sempre dei miei, di difetti. Che te li ricordi solo quando non ti serve qualcosa da me. Mentre i fuochi della festa del santo patrono avevano già iniziato a far tremare ogni cosa all’interno del bar chiuso, ti ho dato dell’opportunista. E questo ti avrebbe mandato ancora più in bestia, se solo mi avessi sentito. Nemmeno io sento te.
Per fortuna la scarica di colpi della batteria pirotecnica copre le parole di entrambi. Perché gridi ancora? Non ti accorgi nemmeno di avere la voce coperta dal fracasso, Eva? Eppure insisti, ti sorreggi con la mano al bancone e hai piantato un piede a terra perché gli sgabelli sotto di noi si muovono.
Hanno sparato questi fuochi troppo vicino al centro urbano. I nostri coetanei hanno voluto fare i gradassi, quando sono subentrati nel comitato organizzatore dei festeggiamenti al posto dei vecchi di sempre. Per dimostrargli che non sono degli sconclusionati senza legami profondi col paese.
Legami profondi. Non sono questi che ci hanno rovinati, Eva? Forse è questo che mi stai dicendo così forte e arrabbiata, con la gola gonfia e le mani affusolate che si dimenano? Non so se mi fa più paura provare a toccarti o riuscire a sentire la tua voce.
Forse mi stai ribadendo che dovevamo restare i due amici che eravamo dai tempi dell’asilo, quando ancora non sapevamo bene cos’erano un maschio e una femmina. E a te piaceva fare il maschio per starmi dietro, giocare come giocavo io. Fare a cazzotti con gli altri e rubare sigarette. Quando da adolescenti i nostri corpi e le gelosie hanno iniziato a chiamarci, me lo dicesti che non sarebbe stata una buona cosa. Che dovevamo restare i bambini inseparabili di Borgo Pacolezzi. Che dovevamo staccarci dal cordone ombelicale di questa frazione di campagna e conoscere altra gente. Ma non ci resistevamo.
Ero e sono ancora convinto che la nostra evoluzione era inevitabile. Così come ero e sono ancora convinto che pure la nostra fine lo sarebbe stata. Ma non l’ho mai detto, bastavi tu a ripeterlo dopo ogni nostra lite. Ma se lo sapevi, perché soffri così? Perché non smetti di sgolarti invano? Perché non mi stringi la mano e basta, invece di agitarti scansando i bicchieri che ci cadono addosso dai binari di scolo, durante gli ultimi (finalmente) fuochi d’artificio?
Gli sparuti colpi finali si alternano ai tuoi singhiozzi. Ora piangi con la testa bassa, coi capelli lisci che ti nascondono il viso. Le tue spalle che sussultano, al contrario del terremoto appena passato, mi scuotono. Ti abbraccio. Non ti lascio lo spazio e la forza per liberarti dalla mia stretta. Ti sento lasciarti andare, le tue spalle cadono. Passo le dita tra i tuoi capelli e infilo il naso nelle ciocche sulla tua testa, ti bacio la fronte. Le tue braccia penzolano, le mie ti avvolgono. Coi polpastrelli dell’altra mano sfrego forte il tuo cappotto. Vorrei tanto trapassarlo e arrivare alla pelle fredda e bianca della tua schiena, cercare i tuoi nei sporgenti e percorrere la linea frastagliata della tua spina dorsale.
Sposto indietro la testa, tu sollevi un po’ la tua. Giuro che ora ti bacio. Pure se poi mi arriva uno schiaffo. Il tuo naso sfiora la mia guancia, forse lo vuoi anche tu. Ma c’è silenzio, troppo.
Nemmeno più uno sparo dietro cui nasconderci.
Te ne sei accorta. Ti tiri un po’ indietro, restiamo a fissarci a un palmo di distanza.
C’è solo silenzio. Perché non litighiamo, adesso? Perché abbiamo smesso di stringerci? Perché non ci siamo baciati?
Che ne facciamo di noi, ora che non sentiamo più la fine?