Ad anticipare l’album in uscita a dicembre, i Cassandra ci presentano “Bonsai“, un emblematico brano che parla di come abbiamo grandi mondi dentro, plasmati solamente dalla visione dell’altro, in uno spazio troppo piccolo per contenerli.
Qual è allora la soluzione della band fiorentina? Disattendere le aspettative di cui il mondo ci carica ed essere semplicemente ciò che siamo, ciò che sentiamo di voler essere.
Le metafore che ci evocava il bonsai sono due: sentirsi così pieni di idee, di pulsioni ma costretti in uno spazio così piccolo come quotidianità e poi il fatto di essere plasmati dall’ esterno. Ognuno di noi volente o nolente è il risultato di esperienze, giudizi, relazioni che via via con il tempo ci hanno reso quelli che siamo, plasmandoci appunto, certe volte anche inconsapevolmente. Per noi essere “bonsai” vuol dire prendere coscienza di tutto questo.
La piccola battaglia di tutti giorni sta proprio nel dimostrare agli altri cosa realmente siamo e cosa realmente vogliamo a prescindere di cosa il mondo ci chieda di essere o di fare. E questo è assolutamente declinabile in un progetto musicale: riuscire a costruirsi un identità che vada oltre le mode o la ricerca forzata del consenso.
Oggi sembra quasi che non si possa sbagliare, che ogni passo sia fondamentale, che perdere tempo sia un crimine. Noi rivendichiamo il piacevole diritto di sbagliare, di fallire, di disattendere le aspettative. Anche perché molto spesso non sono nostre aspettative ma quelle dei nostri amici o dei nostri genitori.
Essere ribelli vuol dire andare contro la cultura dominante e quindi anche contro le mode o in canali classici.
L’impressione che la ribellione sia stata inscatolata in un preciso algoritmo, facendola diventare più una “posa” molto patinata e studiata nei minimi dettagli svuotandola di qualsiasi significato contro-culturale.
“Mi sento un bonsai, plasmami come vuoi”: spesso nelle vostre canzoni parlate di un tema come se stesse parlando con una specifica persona. Se “Bonsai” fosse una persona, chi sarebbe per voi?
Quando scriviamo un testo ci aiuta molto pensare di avere un interlocutore anche immaginario, non deve per forza esistere anzi molto spesso siamo noi che ci guardiamo allo specchio.
In “Sponsor” parlate di come la vostra vita possa essere guidata da invisibili dipendenze, in “Bonsai” su come le persone e la società abbiano un controllo su di voi. Quando fate musica cercate sempre di scappare da condizionamenti esterni o pensate a creare un sound che possa piacere al pubblico prima di tutto?
In questo disco abbiamo esattamente cercato di allontanarci da tutto e tutto. Non a caso per registrarlo abbiamo scelto una villa in mezzo ad un bosco, isolata, dove prendeva male il telefono ed internet, solo noi 3 e i nostri produttori. Abbiamo tirato fuori un sound incontaminato, molto nostro nel bene e nel male.
I pezzi nascono tutti giorni da pezzi di testo miei, stralci di melodie di Checco o una mia strimpellata al piano. Poi quando abbiamo voglia cerchiamo di mettere ordine questi centinaia di microframmenti, litighiamo un po’ ed ecco che spunta un pezzo. Lavoriamo molto, mandandoci la roba via WhatsApp e cerchiamo di evitare il faccia a faccia perché poi ci si incazza e non si conclude niente.
Diciamo che abbiamo lasciato il nostro quartiere, è un disco nato in strada durante il tour e progettato con una chiara scelta stilistica. Mentre CdM era stato sviluppato in quasi 4 anni (complice la pandemia di mezzo) questo è un disco che fotografa un preciso momento della nostra carriera. E’ una polaroid del nostro momento artistico.
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