A questa generazione non sarà dato alcun segno | Indie Tales

Di Stefano Giannetti

Non avevo mai visto qualcuno così felice di scoprire che Dio non c’è. Non avrei mai immaginato che quella persona sarebbe stata un prete.

Forse quella notte, in ospedale, ci sarei potuta arrivare. Ma ero troppo presa da altro. Eppure le sue mani, bianche e prive di peli che cercavano invano di stringere quelle agitate di Isabella e Ranieri, me lo stavano dicendo.

Isabella non desiderava la stretta di Dio. Doveva afferrarlo lei, per farsi sentire meglio.

«Don Andrea, Carmine non morirà, vero? Sappiamo che non possiamo pretendere questa cosa… Poteva capitare a chiunque, sono morti tanti altri ragazzi, lo so! Però…»

Anche suo marito cercava di tenerla, ma lei non trovava pace. Aveva fatto tutta quella premessa per arrivare alla sua richiesta per il Padre Eterno attraverso il padre in terra.

«… Carmine si era smarrito! Non siamo stati capaci di impedire che si allontanasse da Dio! Tu lo hai visto nascere. Te lo ricordi bene quando era piccolo, lo hai cresciuto in parrocchia. Dobbiamo avere la possibilità di rimediare. Dobbiamo farlo tornare devoto come quand’era bambino. E per questo deve vivere!»

Ormai arresosi dall’avere le sue mani, il giovane sacerdote le cinse le spalle.

«Carmine non si è mai allontanato da Dio, Isabella. Perché Dio gli è rimasto sempre vicino. E lo è anche ora, in quella stanza.»

La fece solo agitare di più.

«Deve vivere! Vivere! Non chiederemo mai più niente, ma Deve farlo vivere!

La diciamo una preghiera, don Andrea?»

Il prete mi sembrò consolato dal sentirsi chiedere di fare l’unica cosa in suo potere.

«Ma certo. Preghiamo per noi e…»

Fece un cenno con la testa ai miei genitori. Fu mio padre a rispondere, stralunato, a mezza voce.

«Micol.»

Che merde. Questo pensai in quel momento, di Isabella e Ranieri. Pare avessero dimenticato che nella loro macchina, guidata dal figlio diciassettenne senza patente, c’era anche mia sorella. Lui ce l’ha portata, lui correva sull’asfalto bagnato in piena curva e ha fatto cadere entrambi nella scarpata horror, chiamata così per via del cinema chiuso che la domina e per il considerevole numero di vittime che ha mietuto tra gli automobilisti. Anche Micol era tenuta ancora in vita per un soffio.

Mamma e papà avevano gli occhi incavati e le guance irritate da tutte le lacrime scese in un pianto a cui avevano dato voce solo i singhiozzi. Non ci unimmo alla preghiera. Noi non abbiamo un dio a cui chiedere qualcosa, nemmeno la salvezza di Micol. I nostri santi erano i medici e il miracolo potevano farlo loro e il tempo, se i due ragazzini non erano giunti lì troppo tardi. Certo, qualche entità superiore da bestemmiare mi avrebbe fatto comodo. Non me la sentivo di incolpare Carmine per quel destino. Non credevo che mia sorella fosse salita su quell’auto perché costretta.

Mi torturava il suono di quelle lagne che salivano verso il cielo per rimbalzarci addosso. Uscii dal corridoio dell’ospedale e mi accesi una sigaretta. Asciugai la ringhiera dalla pioggia che non cadeva più e mi ci appoggiai con le braccia. Poco dopo, quando incendiai la seconda Chesterfield Rossa, venni raggiunta dal prete, che mi parlò prima di arrivarmi di fianco.

«Micol è un nome dell’Antico Testamento. Bello.»

Lo freddai subito.

«Era forse il nome di una diciassettenne che, in quanto donna e quindi tentatrice sessuale satanica, sedusse il fidanzatino e li fece ammazzare entrambi per una camporella?»

Sorrise. Posò le mani sulla ringhiera bagnata, non le tolse. Le mani che erano riuscite a stringere almeno quelle di mamma e papà. L’ho visto da qui. Ora che ci penso, mi spiace di avergli dato quella risposta e per ciò che gli dissi dopo. Sembrava diverso. I pochi preti che avevo sentito prima di lui erano solo bibbie parlanti.

«Isabella è spaventata almeno quanto te. Non biasimarla. Come ti chiami?»

«Leda. Ma io penso abbia ragione, intendiamoci. Avessi passato una vita a pregare e andare in chiesa, anch’io pretenderei la vita di mio figlio salva.»

Cercò di ostentare serenità in reazione alle mie insolenze, ma quelle ore non furono clementi con la sua faccia.

«Non funziona esattamente così, Leda.»

«Sì, lo so come funziona. Funziona che ti devi far andare bene tutte le fregature e se saremo dei bravi masochisti avremo il premio quando saremo morti o quando Cristo si ricorderà di esistere e di rifarsi vivo per far finire di quadrare le profezie. Vi ha mai detto nessuno che dovreste fare gli animatori?»

Lasciò la ringhiera e si asciugò le mani con un fazzoletto.

«Andiamo a comprare qualcosa per tutti al distributore automatico?»

«I miei non vogliono niente.»

«Lo so.»

Accettai solo perché così potevo stare un altro po’ lontana dalla spietata porta chiusa che ci separava dalle sale operatorie, e lontana da quei due stronzi. Per quanto riguardava i miei, mi faceva comodo pensare che si bastassero a vicenda, senza il bisogno di me a disperarmi con loro

Non appena mosse i primi passi lungo il corridoio esterno, il prete riprese forze e fiato. Rispose alla mia osservazione di prima, seppur con un tempismo da un soldo bucato, tanto che mi ero quasi dimenticata cosa avessi detto.

«È che ci piacerebbe avere sempre le risposte facili. Ma da tutti, mica solo da Dio. Chissà, preferiremmo essere presi per scemi, forse. Io lo sento il Signore al mio fianco, ma mica gli chiedo di parlarmi o di far guarire me o qualcun altro.»

Sollevò un braccio verso di me.

«Scusa, non intendevo che non voglio che tua sorella… insomma, mi hai capito.»

Feci spallucce a occhi socchiusi.

«Figurati. Ma tu senti la tua consolazione. Un palliativo che ti sei creato per tirare avanti.»

«E se anche fosse? Sbaglio comunque meno della maggior parte dei credenti.»

«Non devi mica giustificarti con me. Non crederei nemmeno se ti venissero le stimmate adesso.»

«E meno male. Le stimmate, hai detto bene. Vogliono tutti un segno. Ecco perché spesso un santo diventa Dio. E Dio scompare. I segni sono l’antitesi della fede. I credenti diventano peggio degli atei, quando gliene arriva uno. Cosa stanno chiedendo, Isabella e Ranieri? A chi lo stanno chiedendo?»

Di essere salvati da un padre immaginario che non ascolta i suoi figli quando chiedono aiuto urlando; poveracci che calpestano la loro dignità supplicandolo in ginocchio come si fa al cospetto del peggiore dei tiranni: questo stavo per rispondere, prima di notare le sue mani che tremavano mentre tirava fuori i bicchierini caldi dalla macchinetta. Me ne porse uno.

«Scusa, ti ho preso un caffè senza nemmeno chiederti se lo preferissi. Cosa piace ai tuoi?»

Inghiottii la saliva e scossi la testa.

«Va bene. Va bene qualsiasi cosa.»

Bevemmo i nostri caffè senza dire niente. Il silenzio mi faceva vedere Micol inerme su quel letto, con dei ferri a smuovere la carne dentro di lei. Il petto iniziava a farmi male e mi saliva una specie di nausea. Quando parlavo, invece, per qualche istante dimenticavo il motivo per cui ero lì. Per quello, con mio stesso successivo stupore, mi ero infuocata in quel dibattito religioso.

Un urlo ci fece sobbalzare. Era Isabella. Corremmo verso il corridoio con le merendine strette addosso. Ranieri sembrava lanciare le braccia per tenere ferma la moglie che si dimenava come fosse posseduta dal diavolo, con smorfie del viso talmente assurde che in altre circostanze mi avrebbero fatto ridere. Si sentiva solo il suo Carmine gridato a squarciagola lì dentro.

Carmine che non poteva rispondere a quella chiamata disperata.

Era morto.

Le mani di don Andrea lasciarono cadere a terra gli snack e rovesciare i bicchieri di carta insieme al loro contenuto. Cercarono subito Isabella, ma lei le scacciò con uno schiaffo. Spinse via il sacerdote che non oppose resistenza. Se Ranieri, che digrignava i denti e versava lacrime in silenzio, non l’avesse tenuta, Andrea si sarebbe lasciato ammazzare dalla rabbia di lei, che lo trafiggeva a parole.

«Lasciami tu! Rispondimi, Andrea! Fa così Dio? Si dimentica di chi s’è sempre ricordato di lui? Da 

oggi il tuo cazzo di Dio non è più il mio!»

Il marito la strinse con più forza e lei si abbandonò tra le sue braccia.

«Fatemelo vedere. Fatemi andare da mio figlio…»

Poi per un attimo si riprese. Con gli occhi spiritati si rigirò verso don Andrea e gli sputò addosso. La saliva colava sulla camicia del prete, dal petto all’addome. Mia madre si coprì la bocca, nelle guance che rientravano di papà c’era tutta la forza repressa ai suoi muscoli, che scalpitavano per intervenire. Non poteva intromettersi.

Mi sentii una perfetta idiota quando feci un passo, ma non riuscii a farne altri, verso Andrea. Mi bloccai. Lui mi notò, abbassò la testa e uscì. Tornò alla ringhiera, di nuovo senza asciugarla. Lo guardai per qualche secondo da qui ma lui non si girò mai.

Non so quanti minuti dopo, forse più di un’ora, portarono Isabella e Ranieri da Carmine. Mi unii in un abbraccio con mamma e papà, piansi con la faccia nascosta sotto le loro teste. La morte di Carmine aveva disegnato un grafico nella mia mente in cui la curva delle probabilità di salvezza di Micol scendeva inesorabile. Realizzai che non abbracciavo i miei da quando avevo all’incirca tredici anni e iniziai a tremare. Sentivo il battito del mio cuore accelerare e la saliva mi chiuse la gola. Pregai. Pregai mia sorella di tornare e riportare le cose alla normalità, quando l’unica che stringevo era lei, la mia piccolina.

A casa solo io sapevo di Carmine, anche se non l’avevo mai visto. Anche se non ero al corrente del motivo di quell’uscita spericolata.

Avevo bisogno di uscire di nuovo, quindi raggiunsi don Andrea. Gli misi una merendina davanti. La prese, se la rigirò tra le mani, ma non l’aprì.

«Perché non vai a dormire?»

«Aspetto tua sorella, se non vi dispiace. Non ho sonno.»

Con noi non rischiava di ricevere altri insulti. Chi non crede non resta deluso.

Comunque Micol gli fece la cortesia di non farsi attendere molto.

Il dottore aprì la porta e si avvicinò ai miei. Da lì non sentivo le loro parole, ma preferii non avvicinarmi. Il mio cuore si fermò. Riprese a battere solo quando li vidi abbracciarsi e piangere e ridere insieme. Poi correre e scomparire al di là della porta.

Micol era salva.

Io e il prete incrociammo gli sguardi. Mi sorrise, e quel sorriso stonava col resto del volto distrutto. Mi seguì. Un‘infermiera ci fermò prima che potessimo raggiungere mamma e papà.

«Due persone sono pure troppe, lì dentro. Si è appena svegliata. Entrerete quando escono loro.»

Ubbidimmo. Potevo sopportare benissimo l’attesa. Non so perché don Andrea si diede da solo il permesso di venire con me. Forse per rinfrancarsi l’animo alla vista di mia sorella sopravvissuta. O forse, mi chiedo oggi, se in qualche modo non sentisse già dentro di sé ciò che sarebbe accaduto subito dopo.

Mia madre mi fermò sulla porta, con una mano sul mio braccio.

«Per ora sa che Carmine è in prognosi riservata, ma ancora vivo. E c’è un’altra cosa, dopo ne parliamo.»

Annuii ed entrammo.

Micol aveva la testa fasciata e anche una spalla e il torace, per quello che potevo vedere al di fuori della coperta. Una guancia viola sul suo faccino più bianco del solito. Mi sorrise e pianse insieme, con la forza di cui fu capace. Era bella come sempre. Forse di più.

Alla vista di don Andrea aggrottò le sopracciglia. Pensai fosse per verificare se lo conoscesse già, ma quando i suoi occhi si posarono sul suo collarino bianco, si spalancarono turbati. Sollevò di poco il braccio e puntò l’indice verso di lui. Io ero basita. Perché cercava un contatto con un prete? La risposta me la diede subito, con un sibilo.

«L’ho… visto.»

Mi chinai su di lei e le accarezzai la mano, che continuava a indicare Andrea.

«Lui? Lo avevi già visto?»

Scosse di poco la testa, poi si sforzò di parlare di nuovo, con un filo di voce. Laconica.

«Ho visto Gesù in croce.»

Io non capivo, ma il don pareva esserci già arrivato. Il barlume di felicità che gli era affiorato sul volto poco prima era scomparso per lasciare spazio a una triste meraviglia.

Iniziai la domanda fissando lui e la finii rivolgendomi a lei, con una risatina.

«Ma che dici, Micol? Forse è meglio che provi a dormire un po’.»

Ma lei era come ipnotizzata dal prete. Lo stava interrogando.

«La… la macchina… ha iniziato a scendere, a saltare… rami e pietre sbattevano sul vetro… poi… ho visto Gesù… in croce… era luminoso. Non ci vedevo più. Mi sono svegliata… ed ero qui.»

Non sapevo che pensare in quei pochi istanti. Neanche come delirio da trauma aveva senso. Micol è sempre stata atea, non è nemmeno battezzata. Salvo qualche domanda sulla religione fatta ai nostri genitori quando alle elementari i suoi compagni andavano al catechismo, non ha mai parlato di queste cose. Non si è mai posta alcun problema esistenziale. Non che a casa sapessimo, almeno.

Alla faccia dei miei dubbi, Andrea aveva solo certezze. Senza dire nulla si girò di scatto e corse via. Lo avrei seguito, se non avessi ritenuto più importante continuare a stringere la mano della mia sorellina, sbigottita quanto me. Sperai di trovarlo ancora fuori, a bagnarsi su quella ringhiera, qualche minuto dopo. Ma non c’era.

 

Non ho affrontato il discorso della visione con Micol nei giorni successivi. Ero più preoccupata per la sua salute e sul come dirle che il suo ragazzo era morto. Nemmeno lei ha accennato più all’episodio. A tutt’oggi non ne ha rifatto parola. Forse ha capito che c’erano altre questioni da affrontare prima di quella della presunta apparizione, anche fosse stato un miracolo a salvarle la vita e inspiegabilmente solo la sua.

Però volevo rivedere Andrea. Ero in pensiero per lui. Dovevo vederlo e parlargli, o magari non dirgli niente, se non voleva parlare. Ma avevo bisogno di sincerarmi che stesse bene, dopo quella notte che gli piombò addosso.

Mi sono informata, ho trovato la sua parrocchia e la sua chiesa. Quattro giorni fa ci sono andata e ho domandato di lui a una signora che stava curando le piante. Mi disse che il prete era uscito da un pezzo ed era improbabile che sarebbe ripassato di lì.

 

Il giorno dopo ci sono tornata e ho trovato solo il diacono. Mi ha lasciato il numero di cellulare del don, dal momento che non ho voluto spiegargli perché lo stessi cercando. Ma a me non andava di chiamarlo. Avevo paura che mi avrebbe chiuso il telefono in faccia, o che potesse inventarsi una scusa per non incontrarmi.

 

Ho lasciato passare altri due giorni per riprovare oggi. Ci sono degli anziani seduti a recitare il rosario. Tra poco sarà celebrata la messa feriale. Deve essere qui. Mi dirigo subito in sagrestia, ormai conosco bene il posto. Busso e nella voce che mi dice avanti non riconosco quella di Andrea, per quanto mi dicono i miei ricordi. Apro la porta, sobbalzo. Alla scrivania c’è un altro prete. Andrea ha forse lasciato l’abito? Forse sto esagerando. Gli chiedo sue notizie e prova a rassicurarmi, vedendo in me una a lui incomprensibile preoccupazione. Mi dice che sono grandi amici. Non che glielo avessi domandato.

«Lo sto sostituendo per qualche giorno. Mi ha chiesto questo favore. Se vuoi, ti do il suo numero.»

Protesto, ingiustificata, contro di lui che non merita le mie noie.

«Il numero ce l’ho. Ma avrei bisogno di vederlo, è importante! Dove posso trovarlo?»

Abbandona la schiena alla sedia. Sembra sulla quarantina, più o meno come Andrea. Pare percepire che ho a che fare con l’allontanamento del suo collega. Non so se a ragione poi, ma quando mi capita di entrare in una chiesa sono convinta di indossare una t-shirt con sopra la scritta atea stampata a caratteri giganteschi. Quindi, sono convinta lui sappia che non mi serve una confessione o una messa per un parente. Però prova ancora a tenermi distante, forse per tutelare finché può il suo amico.

«Sicura che non possa riferirgli qualcosa io, quando torna, così ti faccio ricontattare?»

Scanso la sedia davanti a me e mi piego leggermente sulle ginocchia, poggio i gomiti sulla scrivania e le dita alle tempie. Gli penetro gli occhi coi miei.

«Devo vedere Andrea il prima possibile, ti prego. È urgente.»

Si sporge in avanti e mette le mani giunte sulla pila di scartoffie che ha sotto il mento. Parla a bassa voce.

«Sono giorni che va al cinema chiuso. Lascia la macchina lì e poi non so. Torna ogni sera quando è già buio e non dice niente.»

Si asciuga le gocce di sudore che iniziano a fare capolino sulla fronte stempiata.

«Il figlio di una coppia di fedeli, molto legata a questa parrocchia, è morto qualche sera fa in quella zona. Andrea lo aveva cresciuto.»

Arriva al dunque.

«Ma tu questo lo sai, vero?»

Torno dritta sulle gambe.

«Grazie.»

Me ne sono andata di corsa. Sfreccerei anche con la macchina, se non fossi conscia di dirigermi verso il luogo di tanti incidenti, tra cui quello fatale a Carmine. Quindi guido piano. 

Trovo una Fiat Punto nera parcheggiata davanti al vecchio cinema. Dev’essere lui.

Mi metto a girare nei paraggi, a guardarmi intorno. Non lo vedo. Resta una cosa da fare, anche se mi tremano le gambe solo a pensarci. Ma ormai sono qui. Scendo, tenendomi il più possibile anche con le mani, lungo la Scarpata Horror. Non sono totalmente convinta di essere sulla pista giusta, quindi evito di urlare il suo nome a squarciagola nella speranza di vederlo palesarsi da dietro una di quelle pietre, o tra le piante, che mi fanno incespicare. Scivolo più di una volta sulla discesa sdrucciolevole, cerco di non dar peso al dolore.

Inizio a chiedermi se non stia facendo una cazzata, e un pensiero orribile, forse nutrito dallo scoramento, diventa immagine nella mia testa. Tuttavia, mi sembra improbabile che il prete sia venuto qui ogni giorno a meditare il suicidio. Anche fosse, proprio oggi doveva decidersi a concretizzare?

Mi fermo e tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans. Lo prego come fosse un dio di rispondermi.

«Pronto?»

«Andrea!» 

«… Sì?»

Mi si spezza per un attimo il fiato. Poi riprendo.

«Andrea, sono… sono Leda. Leda, la sorella di…»

«Leda! Proprio tu! Devo parlarti! Come sta tua sorella?»

Perlomeno, il mio nome non comunissimo ha abbreviato le spiegazioni.

«Sta bene. Ma dove sei? Io sono alla scarpata.»

Mi chiedo il perché di tutto quell’entusiasmo nella sua voce e cosa abbia da dirmi.

«Anch’io, ma non ti vedo. Non muoverti, è pericoloso. Ti raggiungo.»

«Magari, ma nemmeno io riesco a vedere te. Mi sono fermata a metà strada, prima di…»

Stavo per dire prima di ammazzarmi.

«Perché ero in fondo. Eccoti, arrivo.»

Mi prende la mano. Il suo sorriso non è normale. Così come il suo fiato corto, dovuto più all’entusiasmo che alla scalata.

«Devi vedere una cosa.»

Riscendiamo piano per non cadere male ma si vede che vorrebbe arrivare lì con due balzi. Lì giù, alla fine del dirupo. Davanti una vecchia Ford Fiesta grigia, distrutta sul davanti e parzialmente schiacciata sul tettuccio. Del parabrezza restano poche schegge attaccate lungo i bordi.

Non capisco.

«Andrea, questa non è la macchina che Carmine prese a suo padre. Quella sarà in qualche sfasciacarrozze adesso.»

«Lo so. Quello che non so è a chi sia appartenuta questa. Ma guarda qua, sul cofano e sul paraurti. Strisce di vernice blu notte. E questi sono pezzetti di carrozzeria, sempre blu.»

Mi rigiro tra le mani il frammento di plastica dura che mi ha passato. Ancora mi sfugge dove vuole arrivare. Lo incalzo, ho fretta di risalire. Mi angoscia stare qui.

«La macchina di Ranieri era una Lancia Ypsilon di questo colore. Dici che cadendo, Micol e Carmine hanno avuto un frontale con questo rottame che l’ha lasciato arrivare fin quaggiù…»

«…Prima che la Lancia si ribaltasse per l’impatto contro una roccia. Tutto lo lascia supporre, non trovi?»

«Ok, ma cosa ci sarebbe di sensazionale?»

Si fruga nella tasca con la foga che un bambino ha quando vuole mostrarti un oggetto qualsiasi, trasformato dalla sua mente infantile nell’ottava meraviglia del mondo. Ne estrae qualcosa che mi mette nella mano, e solo ora mi accorgo che la sua è insanguinata.

«L’ho trovato sotto il sedile del guidatore della Fiesta.»

Guardo cosa mi è stato appena consegnato. Un crocifisso, forse d’argento, appeso ad un laccetto marrone spezzato.

«Perché ti sei messo a rovistare in quella trappola? Avevi nostalgia dell’ospedale?»

Mi rendo conto di dover smorzare i toni.

«Andrea. Lo so che vieni qui da giorni. A fare che?»

Indica in alto, verso la strada.

«Forse non ci hai fatto caso, ma una pista di schegge di vetro, pezzi di plastica blu e macchie scure portano a pochi metri da dove ci troviamo ora. La roccia incriminata, la più sporca di tutte, si trova praticamente dietro le tue spalle. Prima di scontrarcisi e di iniziare a ruzzolare, la Ypsilon si è trovata muso a muso con la Fiesta per un bel tratto. L’ho capito subito.»

Mi sta venendo l’emicrania. Roba da pazzi. Ho rischiato di sfracellarmi per fare la predica a un prete.

«L’hai capito subito e hai continuato a scendere in questo strapiombo ogni giorno?»

Torna euforico, il che mi porta a sospettare che in una di quelle sue escursioni abbia battuto la testa.

«Mi serviva una risposta, Leda! Una risposta alla visione di tua sorella! Sapevo che solo qui potevo sperare di ottenerla, nel luogo in cui l’ha avuta. E l’ho trovata solo oggi!»

«Hai rischiato la vita per il delirio di una ragazzin…»

«Ti ha detto la verità. Ha visto Gesù perché lo aveva davanti davvero!»

È troppo. Chi cazzo me lo ha fatto fare? Con un gesto del braccio scaccio la sua fandonia e mi giro per risalire da sola.

«Aspetta, Leda! Non ci arrivi? Ce l’hai in mano!»

Non m’ero nemmeno accorta che lo stavo portando con me. Il crocifisso. Il laccio rotto. Inizio a capire ma lo lascio dire a lui. Scodinzola per dirmelo.

«Quel crocifisso doveva essere appeso allo specchietto retrovisore della Fiesta quando la Ypsilon ci è andata a sbattere contro. Ne sono convinto! Il ciondolo ha riflesso la luce dei fari della Lancia agli occhi di tua sorella. E il trauma di tutti gli urti successivi ha fatto il resto nella sua mente.»

Mi rigiro l’oggetto sacro tra le dita. Certo che l’immaginazione di Micol deve averlo ingigantito parecchio, ma la ricostruzione di Andrea è coerente con le parole che lei ci disse in ospedale.

«Quindi dici che non c’è stato nessun miracolo.»

Realizzo che sembro meno scettica di lui ancora prima di finire la frase. Sorride, finalmente, di gioia vera.

«Nessun miracolo.»

Mi afferra il polso, sussulto. Mi toglie il crocifisso dalle mani e lo posa sul cruscotto della macchina. Guarda l’orologio.

«Andiamo via. Starai morendo di freddo. È tardi per la messa feriale, ormai se ne parla domani.

Ti va di bere qualcosa di bollente?»

Non avevo mai visto nessuno così felice di sapere che Dio non c’è. Non avrei mai immaginato che quella persona sarebbe stata un prete.

 

Ripenso alle parole che Andrea mi disse mentre compravamo le merendine alla macchinetta dell’ospedale e comprendo cosa deve aver provato nei giorni addietro, fino all’illuminazione in fondo alla scarpata. Un miracolo ci avrebbe rovinati tutti. I segni dal cielo rischiano di far perdere Dio ai credenti e la ragione agli atei. Isabella non riesce a riconoscere che la scelta di salvare una sola tra le vite di Micol e suo figlio è stata compiuta solo dal caso. Lei il caso non lo contempla proprio. L’autenticità della visione di mia sorella le sarebbe stata fatale.

Invece lei e Ranieri possono ricominciare a vivere, anche se ancora non lo sanno. Anche se sono convinti di essere stati abbandonati da Dio e da Carmine in una sola notte. Questa epifania mi si è balenata tra i fumi della tazza di tè che ho davanti, seduta al tavolo del bar vicino il vecchio cinema con don Andrea.

Tengo la rivelazione per me, non gli dico nulla.

Il modo in cui voglio aiutare quei due, in un certo senso, me lo ha insegnato lui. Ma per ora posso farlo solo io.

 

«Ma devo dirglielo veramente? Adesso?»

«Sì che devi. Per Carmine.»

Sembra la bambina di sempre, Micol, di fianco a me in macchina che gioca coi suoi ricci biondo cenere. Li tortura quando è in preda all’ansia. Le sue guance bianche e paffute sembrano volersi staccare da sotto gli occhi e cadere giù. Soprattutto ora che sono più pienotte del solito. La piccola di casa. Che si è ritrovata grande all’improvviso.

«Leda.»

«Dimmi.»

«Se Carmine non fosse morto credo che avrei abortito. Quella notte, gli avrei detto che volevo abortire.»

Le accarezzo una gamba mentre guido e guardo la strada.

«Pensi che sarebbe stato d’accordo?»

Continuo a tenere gli occhi sul parabrezza. Se incontrasse il mio sguardo, si agiterebbe di più. Ci mette un po’ a rispondere. La sua voce diventa ancora più infantile.

«Sì. Ma solo perché io avevo paura. Non so se lo avrebbe voluto.»

Le stringo la mano. All’inizio abbiamo provato a chiederle di più di quella sera: se la loro era una specie di fuga d’amore, o una bravata fatta in preda al panico per quello che stavano affrontando e per le reazioni che avrebbero potuto avere sia i nostri genitori che quelli di Carmine. Oppure un semplice incontro per discutere subito e il più lontano possibile sul da farsi.

Micol non ha mai voluto dirci nulla, per rispetto della memoria del fidanzatino.

Siamo arrivate. Accosto, le accarezzo una guancia.

«A dopo. Chiamami.»

Annuisce, la vedo che trema quando si slaccia la cintura. Resto a guardarla percorrere lenta il vialetto e poi suonare alla porta di Isabella e Ranieri. È proprio la moglie ad aprire. Da questa distanza non vedo se piangono, ridono, o litigano. Vedo solo che Isabella le fa spazio sull’uscio.

Micol entra, per riportare loro Dio e il figlio perduto. Attraverso l’unico segno possibile.

 

Racconto liberamente ispirato al brano “Nothing else matters” dei Metallica eseguita dal coro Scala & Kolacny Brothers