PH: Francesco Pascucci

Rocco Cannarsa: “Vai via, come si gestisce l’addio” | Intervista

Scappare è un sintomo di paura, andare via può essere invece l’unica soluzione che rimane davanti alla fine non solo di un amore, ma anche di un momento stesso dove l’equilibrio interno è cambiato rispetto a quando tutto funzionava se non alla perfezione, quasi.

“Vai via” non è solo il primo singolo di Rocco Cannarsa, infatti questa canzone rappresenta anche una condizione umana dove non si ha il pieno controllo della situazione e si finisce obbligati a dover gestire un addio.

Ascoltando questo brano rimane il rammarico di un passato diverso dal futuro e diventa necessario riuscire a mandar giù il boccone amaro il prima possibile, per non rischiare di rimanere soffocati dal peso della nostalgia o dai rimorsi. Certo ognuno di noi ha tempi e metodi diversi per confrontarsi con il dolore, resta il fatto che è sempre possibile ricominciare un nuovo percorso e dirigersi verso una nuova direzione. Andare, senza rimanere imprigionato tra domande e perché.

INTERVISTANDO ROCCO CANNARSA

“Vai via” a chi è dedicata?

Potrei dire che è dedicata alla mia ultima relazione, ma sarebbe una bugia. Ogni volta che provo a scrivere di una donna, o per una donna, i volti si iniziano a mescolare, i momenti fanno lo stesso, e alla fine viene fuori che ho scritto a una donna che non c’è mai stata, che incarna parte di tutte le donne della mia vita ma nessuna in particolare. Forse è solo un ideale, non lo so. Credo che alla fine “Vai via” sia dedicata a me, per tutte le volte che mi ritrovo solo nella mia camera piena di polvere a fissare il lampadario tondo e a chiedermi: «Perché?», quando so di essere io quel “perché”.

Come si gestisce un addio?

Ma perché, si gestisce?

Credo che gli addii siano qualcosa di estremamente complicato, non tanto per l’abbandono in sé o la solitudine che ne deriva, quanto per tutti i dubbi che vengono sollevati “di contorno”.

Ultimamente cerco molte cose su internet, cose che prima avrei cercato nella letteratura, nel cinema, ma sarà che mi sto lasciando cullare da quest’onda di ipersensibilità, vittimismo o, più semplicemente, di pigrizia che permea la nostra società, e cerco nel web consigli psicologici. Ma non di quelli seri, mi piacciono i siti spiccioli, quelli superficiali e banali, a volte mi strappano un sorriso quasi fossero meme: “Se hai queste cinque cose allora potresti soffrire di depressione”, cose così. Insomma, tutto questo per dire che molto spesso in questi siti la fine di una relazione viene equiparata a un lutto. Io non sono minimamente d’accordo. Entrambe portano a tutta una serie di domande con le quali è difficile convivere, ma il lutto riguarda la dimensione profonda ed esistenziale, universale, l’inesorabilità del futuro, la nostra inconsistenza.

La fine di una relazione, invece, solleva tutta una serie di domande molto meno profonde ma più scomode, personali, che vanno ad ampliare certe insicurezze che possono intaccare anche la quotidianità, e ciò ne rende più complesso il superamento. Sono sbagliato? Qualcun altro mi apprezzerà? Farò sempre gli stessi errori? Insomma, credo che ciò che renda difficile superare un addio sia il dolore che comporta il tentativo di rispondere a queste domande.

Sei una persona che continua a credere nell’amore anche rischiando di star male?

Sono tante le cose della vita che possono fare male, direi che tra tutte l’amore sia la più nobile per cui soffrire. Non è tanto la possibilità della sofferenza a farmi paura, ma è proprio l’amore. La narrazione che ne abbiamo fatto lo ha reso, almeno nella mia mente, qualcosa di così puro da essere inarrivabile. Ancora peggio se si parla di amore “vero”, che stronzo chi ha pensato di parlare di verità. Dall’altra parte, però, c’è stata una ragazza nella mia vita a cui devo molto, e lei era in fissa con un pezzo di Fossati, un brano che mette i brividi, che si chiama “La costruzione di un amore”. Per me quel pezzo è un incubo.

L’idea che l’amore possa essere qualcosa che vada coltivato giorno dopo giorno, che sia il “semplice” frutto di impegno e compromessi mi terrorizza, perché va a sminuire, a cancellare, quell’idea di magia cinematografica, o forse solo adolescenziale, e la sostituisce con una visione adulta, vissuta, razionale di quello che questa vita ci consente di vivere come amore. Ma se l’amore fosse questo, una persona varrebbe l’altra, basterebbero solo una comunione di intenti, attrazione fisica e mentale, rispetto e… un buon sesso. Non so dire se credo nell’amore, perché non so a quale delle due realtà sono disposto a credere, ma sarei un bugiardo se dicessi che non è vero che ogni volta che esco di casa spero di scontrarmi al primo angolo e far cadere tutti i libri dalle mani della donna della mia vita. Diciamo che all’amore del primo senso vorrei poter credere, per quanto riguarda quello del secondo, spero che un giorno possa avere la pazienza per poterlo realizzare.

PH: Leonardo Nicolini

In quale parte del mondo ti piacerebbe scappare per crearti una nuova vita?

Per non far prendere troppo male i lettori risponderei in Spagna, probabilmente a Barcellona, aprirei un bar. O in Sud America, a fare la stessa cosa.

Ma, visto che sto provando a essere sincero, e sono una persona terribilmente noiosa, risponderei che non credo ci si possa creare una nuova vita, in fondo siamo sempre noi, e chi siamo ce lo portiamo addosso, ovunque. Ho pensato effettivamente di “scappare”, tantissime volte. L’ho fatto dal paesino del Molise dal quale vengo, Termoli, verso Firenze, qualche anno fa volevo trasferirmi a Parigi, poi ho pensato a São Paolo, poi a Barcellona. Credo che per ora finirò a Roma ma, il punto vero è lo scappare. Diciamoci la verità, “tutto il mondo è paese”, e tutti i posti alla fine sono uguali. Ci si deve scontrare coi propri demoni per far sì di poter dire “Finalmente sono andato in Sud America e ho aperto un bar”, invece che “Sono scappato in Sud America e ho aperto un bar”.

Cosa significa per te dimenticare?

Solitamente è sinonimo delle mattine di sabato o domenica, quando mi accorgo che gran parte della sera prima è obnubilata. In sintesi, Gin Tonic. A parte gli scherzi, credo che la domanda si riferisca a cose negative che si vorrebbero dimenticare. Penso che quelle cose non si dimentichino, che ce le portiamo sempre addosso.

Mi spiego meglio, credo che crescere sia interiorizzare i traumi. Potrebbe essere un paradosso, che dimenticare sia possibile solo quando ciò che si vuole dimenticare è diventato realmente parte di noi e ci ha modificati. Quando invece ci si impegna, si prova in ogni modo a dimenticare, questo non può realmente avvenire, siamo troppo impegnati a respingere il dolore, a capirlo, poi a capire noi stessi. Alla fine capiamo che non ci si capisce proprio niente e che semplicemente siamo andati avanti, perché la vita continuava mentre noi eravamo fermi a riflettere, e siamo cambiati e il dolore ce lo abbiamo dentro, ma non ci pensiamo più perché ormai siamo diventati anche quel dolore.

PH: Francesco Pascucci

Esiste un modo per misurare le delusioni?

Credo che esista. Non so quale sia ma penso che ognuno di noi dentro di sé giudichi (anche se nega) e “misuri” (non voglio cadere nei doppi sensi), qualsiasi cosa. Poi, certo, se si intende un modo assoluto, no, credo che sia interno e relativo. Un amico che dovrebbe offrirti un pranzo perché la volta precedente hai offerto tu ma non lo paga è diverso da trovare il partner a letto con un altro o altra, insomma, forse ho scelto il paragone sbagliato (credo che la differenza di peso tra le due cose sia universalmente accettata), ma quello che voglio dire è che la delusione, quel senso di disgusto che ci fa socchiudere la bocca e ci blocca per qualche attimo, la delusione come sentimento, è la stessa, identica. Poi dentro di noi c’è qualcosa che la misura, magari l’esperienza o le aspettative.

L’arte e la scrittura possono essere un modo per rielaborare la tristezza, comprendendo anche una sua necessità?

Lo sono da sempre. Credo che chiunque si sia avvicinato a una qualche forma d’arte lo abbia fatto per necessità ed è raro avere la necessità di esprimere e comprendere meglio “la felicità”. Proviamo a comprendere il dolore perché è quello che dobbiamo superare, la felicità, se mai esistesse, andrebbe solo vissuta.

Soprattutto credo che chi si sia affacciato all’arte per questa ragione, la necessità, non abbia pensato neanche un secondo a voler realizzare un’opera d’arte. Solo successivamente arriva la consapevolezza di aver creato, e quindi di poter creare ancora qualcosa di bello grazie al dolore, qualcosa in cui altre persone possano specchiarsi e meglio comprendersi grazie all’esperienza dell’artista. Poi, certo, c’è la deriva di tutto questo, il “pendio scivoloso”, di quando si crea il bello e basta, quel qualcosa di meravigliosamente fine a sé stesso. O addirittura, per quanto riguarda la “necessità della tristezza”, c’è proprio un rovescio della medaglia, il rischio di andare a cercare la tristezza solo ai fini di scriverla, solo come motore per creare qualcosa di bello, ma si finisce per fare lavori mediocri e vivere una vita falsa. E sì, parlo per esperienza.

Ci consigli tre canzoni felici scritte da tre diversi cantautori?

Allora, di canzoni me ne vengono in mente solo due, ma nessuna è felice. Piuttosto è ascoltarle, che mi rende felice. Se la felicità è l’effetto, vale lo stesso? Facciamo di sì.

La prima è “Alone again (Naturally)”, di Gilbert O’Sullivan, un cantautore irlandese. Il pezzo è un alzarsi di spalle, e mi fa venire voglia di ballare con la scopa in mano nel mio salotto.

Il secondo, invece, si chiama “Me cago en el amor”, ed è di Tonino Carotone, un cantautore spagnolo, ma il testo è quasi tutto in italiano. È un brano totalmente disilluso, e anche se il testo sembra positivo, si capisce che c’è una vena di amarezza. E poi chi mi conosce lo sa, «È un mondo difficile, e vita intensa» è diventato il mio motto.

La terza canzone, me la voglio giocare jolly, è un pezzo mio. Si chiama “Gira il mondo” e uscirà tra un mese, o poco più, su tutte le piattaforme.

PH: Francesco Pascucci