Via Carlo Alberto, 26 | Indie Tales

Di Stefano Giannetti

23 dicembre 2023, mattina

«Sì, vabbè. Se dovevo parlare da sola, venivo da sola.»

Manuel scollò a forza gli occhi dal cellulare. Stefano dal suo block-notes. I ricci neri di Sole si agitavano insieme a lei.

«Non fate quegli occhi da Bambi, ora. Non mi ascoltavate. Spero vi torni la concentrazione quando dovremo pagare il conto.»

Stefano finì di appuntarsi una frase mentre teneva alzata l’altra mano.

«Pago io che domani faccio gli anni.»

Manuel si lasciò strusciare sotto i denti la forchetta coi residui della sua torta al cacao e lamponi.

«Non è meglio offrirci qualcosa domani allora? Non credi a quella cosa che festeggiare prima porta sfiga?»

L’amico posò la penna e sollevò lo sguardo al cielo terso sopra di loro.

«Più sfiga di questa? Domani c’ho da fare.»

Sole schioccò le dita in faccia a Manuel.

«Amore, pure noi stiamo come Cenerentola a mezzanotte meno dieci, domani. Devi aiutarmi a preparare il cenone.»

Stefano ghignò e accarezzò il polso del ragazzo.

«Ripensandoci, sei più sfigato tu.»

Gli scomparve il riso quando gli arrivò uno schiaffo dall’amica seduta di fianco.

«Ahia! Ma sei scema? Portateli qua in torteria i vostri vecchi per la Vigilia, se farli cenare vi dà l’esaurimento.»

Sole lo penetrò coi suoi grandi occhi viola.

«Esaurita, io? E tu, che ogni Vigilia di Natale te ne vieni qui a Belicabarbis da solo? Il tuo inderogabile impegno di domani è tutto qua.»

«Oh, è il compleanno mio. Un giorno all’anno potrò decidere il cazzo che mi pare? O devo mandarti le foto delle mutande così scegli tu quali devo mettere?»

«Stronzo. Per te l’avremmo trovata mezz’ora, ti avremmo fatto gli auguri. Ma tu ogni 24 dicembre pare che recinti via Carlo Alberto e non vuoi nessuno con te.»

Stefano si scrocchiò le dita anchilosate dai minuti trascorsi a impugnare penne e matite.

«Solo il civico 26. Volendo potrei mettere le luminarie sulle transenne. E dai, è solo per scrivere un po’ di più. A Natale ci vediamo.»

Sole sospirò mentre girava il cucchiaino nella tazzina che aveva contenuto il suo caffè.

«Se vogliamo dircela così. E comunque scrivi, scrivi e non pubblichi un cazzo. Ma quando lo muovi quel culo?»

Manuel sbatté il cellulare sul tavolo. Gli altri due trasalirono.

«E non rompergli i coglioni. Per il compleanno suo vuole stare in pace. Tu sfiati la gente.»

Gli occhi di Sole diventarono due fessure.

«Sfiato la gente? Devi dirmi qualcosa?»

Stefano sfilò una banconota da venti euro dalla tasca e la esibì come un trofeo.

«Oh, almeno non piove, no? Gradite altro, signori?»

Manuel gli scompigliò la cresta di capelli.

«L’anno prossimo ci porti a pranzo, altro che torteria. Poi voglio vedere se fai lo sborone con venti euro.»

Si guardò intorno.

«E comunque, hai ragione. Che cazzo di caldo per essere il 23 dicembre. Domani mattina puoi metterti a scrivere e disegnare fuori come oggi.»

Anche Stefano si guardò intorno. Poi si fissò su un punto. Su due mani che si tenevano. Poi sui due proprietari delle mani, infine sul corpo attaccato alla mano più chiara e sottile tra le due. Pure la ragazza si era girata verso di lui e i suoi schizzi a matita. Gli sorrise. Lui arrossì e si girò verso il portone al di là della strada.

Il tutto durò quattro secondi, forse meno. Il tempo che il ragazzo di lei si accorse che si era distratta, e lei fece finta di niente. Il tempo che Sole e Manuel trovarono la forza di staccare gli occhi dalla scena solo per infilzarli in quelli di Stefano.

Stefano che si rimpicciolì nelle spalle.

«Perché ho come l’impressione che non volete più parlare del meteo?»

Sole, con uno scatto, lo afferrò per lo scaldacollo blu e gli parlò tra i denti.

«Quella era Carolina.»

Lui si staccò una ad una le sue dita di dosso.

«Ma pensa. Non era Mino Reitano? Devo averli confusi. Ora che ci penso, uno dei due è morto.»

Manuel si alzò.

«Volete calmarvi? Si sono girati tutti. Andiamo, Sole. Facciamo ‘sta crociata al supermercato.»

Lei si premette gli indici sulle guance.

«Quella e ‘sto carciofo si sono guardati. Si sono sorrisi.»

«Ha sorriso solo lei.»

«Cambia qualcosa? S’è rifidanzata, ormai. Scordatela.»

Manuel tornò a sedersi.

«Time-out. Cosa mi sta sfuggendo? Mica le ha toccato il culo.»

Sole si raccolse i capelli in uno chignon improvvisato.

«A te sfuggono troppe cose. Ma io ho capito. Ho capito perché il broccolo la Vigilia di Natale si compra via Carlo Alberto.»

Stefano si abbandonò allo schienale della sedia.

«Ecco, a proposito. Non dovevate andare a comprare gli squali per domani sera?»

«Tranquillo, Ste’. Diglielo a ‘sta fissata che sta correndo troppo.»

«Fissata, stai correndo troppo.»

Sole mollò a Stefano uno schiaffo più forte del precedente, facendogli cadere gli occhiali nel piatto.

«Sono passati tre anni. Vuoi superare la cosa? Guarda che vengo qua domani, eh?»

Manuel strabuzzò gli occhi.

«Amore, stai dicendo che Stefano e Carolina si vedono qui? La tua torta era al gin per caso?»

Stefano tolse la panna dagli occhiali e fece per alzarsi.

«Vado io a prendere gli squali e li ributto in mare. Ho sentito pure troppo.»

Manuel lo imitò.

«Anch’io. Che senso avrebbe, Sole? E perché solo il 24 dicembre?»

La ragazza lasciò la sedia ma avvicinò la testa a quelle degli altri due. Sussurrò come se stessero complottando contro il governo.

«Perché è qui che si sono conosciuti, la Vigilia di cinque anni fa. Pensavo venisse qui solo a frignare e affogare nella cioccolata per la ricorrenza, ‘sto caprone. E invece…»

Stefano raccolse le sue cose dal tavolo.

«Hai rotto il cazzo. Ti sei fatta un film solo perché m’ha sorriso. Non m’ha manco salutato.»

«Può darsi, ma sarà perché ti conosco da quando portavi il pannolino, e purtroppo te ne ho pure cambiato qualcuno, che c’ho ‘sta cosa in testa. E so che non mi sbaglio.»

L’amico agitò le braccia, cercò la complicità di Manuel.

«Ma la tua fiction avrebbe senso se avessi visto me prendere un’iniziativa. E poi Carolina s’era stufata presto di Belicabarbis, perché dovrei portarla qui?»

Manuel prese la fidanzata sottobraccio e rise.

«So già che mi pentirò di questa osservazione, ma lei non sopportava nemmeno me e Sole. E questo rafforzerebbe la tesi di questa stella, visto che dici di voler stare solo per il tuo compleanno.»

Stefano applaudì.

«Esatto. Da solo. L’udienza è tolta?»

Sole aggrottò la fronte.

«Magari vi incontrate qua ma poi andate in uno di quei locali da fighetti snob come lei, dove ti portava quando stavate insieme.»

Stefano storse la bocca e evitò di guardarla.

«Ma no, da quando sta con quel tipo è tornata proletaria. Sarà riuscito a toglierle qualche centimetro dai tacchi. Buon per loro.»

Lei gli brandì il cucchiaino davanti al naso.

«Vedi che sei informato, mollusco?»

Lui leccò il residuo di cioccolato dall’arma dell’amica.

«Oh, sempre a Torino sta. Mica a Pantelleria.»

Manuel strattonò la ragazza e con l’altra mano si massaggiò la tempia.

«Basta, ora. Non avrei mai pensato di dovertici trascinare io, tesoro, ma andiamo a pescare ‘sti squali, su. Ciao, Ste’.»

«Cia’.»

Mentre i due fidanzati si allontanavano, Sole si voltò indietro e disse a Stefano, portandosi l’indice e il medio sotto le palpebre, che lo avrebbe osservato.

Stefano sospirò e si girò dall’altra parte, indugiando a osservare la parte di strada lungo la quale Carolina si era allontanata col suo ragazzo.

23 dicembre 2023, tardo pomeriggio

Sole e Manuel faticarono a uscire dallo stretto ascensore anni 50 del condominio in via Nizza 155, a causa delle buste che occupavano più spazio di loro.

Manuel entrò nell’appartamento prima di lei, pasticciò per liberarsi della sciarpa.

«Altro che pesce spada, hai comprato l’acquario di Genova. È la terza spesa che facciamo, oggi.»

Sole urtò il portaombrelli col suo sacco stracolmo e teso, a un soffio dal lacerarsi.

«Cazzo vuoi? M’ero scordata delle cose.»

«Delle cose? Sicura di non volere pure il tizio del banco, così ci affetta i salumi al momento?»

«Un neon che mi ricorda di ridere alle tue cagate, ecco che mi sono scordata. Vai a spogliarti, ci penso io qua.»

Manuel scomparve dietro la porta della stanza da letto per poi ricomparire tra l’ingresso e la cucina. Il parquet scricchiolava sotto i suoi passi. Si mise a passarle lentamente le pietanze da mettere in frigo.

«Tutti i giorni spendi trecento euro?»

«Mica abbiamo finito.»

«Sole. Saremo in sette domani. Io, te, tuo fratello e i nostri genitori. Vuoi che non passino più dalla porta quando dovranno uscire?»

Lei rispose mentre sistemava le vaschette di surgelati tra i ripiani.

«Non abbiamo tovaglie natalizie. Né centritavola natalizi. Né segnaposto…»

«Natalizi?»

Chiuse la porta del frigo, lo squadrò. Sul viso le spuntarono le rughe di quand’era esausta.

«Vorrei avere la tua flemma.»

Manuel si passò una mano tra i lunghi capelli rossi.

«Non è manco un anno che conviviamo. È normale che certe cose dobbiamo ancora procurarcele. Perché non ti calmi?»

«Perché ci siamo ridotti all’ultimo minuto, come fanno tutti!»

Lui riaprì il frigorifero, prese una carota e la addentò.

«Non so ai tuoi, ma a mamma e papà di ‘sti fronzoli frega cazzi.»

«Macinano chilometri per venire a Torino. Tu ti faresti un viaggio nei giorni peggiori dell’anno per ritrovarti ospitato nella sciatteria?»

Manuel rise e la abbracciò da dietro.

«Ma quale sciatteria. Proprio perché si fanno ‘sta traversata, i miei non vedranno l’ora di andare a dormire non appena arriveranno. Ti ripeto, stai calma. Scommetto che neanche i tuoi faranno caso ai dettagli.»

«Che ne sai?»

«Ormai li conosco. Tuo fratello, poi. Lo sa che è Natale?»

Sole allentò la presa delle braccia di lui sotto il seno e fece un passo avanti.

«Mi sa che quello che se ne sbatte davvero sei tu.»

Lo sentì sbuffare prima di voltarsi.

«E che palle. Sai come la penso. Dovessi occuparmene io, porterei tutti al ristorante. Ma mica mi pesa aiutarti.»

Lei andò al lavello e iniziò a sciacquare caffettiera e tazze rimaste lì dentro dalla mattina.

«Davvero? Sono giorni che stai in un altro mondo.»

«Ma che dici?»

Chiuse l’acqua e gli si avvicinò.

«Pure stamattina. C’eravamo io, Stefano e basta alla torteria. Intervenivi solo per liquidare la discussione. Per il resto ti stavi limonando il cellulare. Si vedeva lontano un miglio che t’eri rotto.»

Manuel aprì lo sportello sotto il lavandino, gettò l’ultimo pezzo di carota nel cesto dell’umido e richiuse con violenza.

«E porco cazzo, ti sei inventata una pippa assurda! Non ne potevo più.»

La fidanzata gli arrivò a pochi centimetri.

«Dici a me di stare calma, poi. Veramente parlavo anche di prima che passasse Carolina, ma comunque. Sono preoccupata. Dammi della scema, ma sono convinta che quei due con domani sono tre anni che passano la Vigilia insieme.»

Lui strinse le palpebre.

«Ce lo vedi Stefano a rischiare le mazzate dal ragazzo della sua ex per scoparsela una volta all’anno?»

Sole andò a frugare nei cassetti sotto la credenza, in cerca di pezzi di stoffa rossi.

«No. Ma se lo trascina lei, sì. E lo trascina, come sempre. Ne sono certa.»

«Oh, non sarà stata Lady Diana, ma manco era la strega di Blair.»

Sole richiuse i cassetti e gli si rivolse infiammata.

«Quella sciacquetta è riuscita a allontanarlo da noi per due anni. E a fargli lasciare Belicabarbis che lo sai, se potesse ci vivrebbe dentro.»

«Che esagerata. Ogni tanto ci veniva con noi alla torteria.»

Sole aprì la portafinestra che dava sul balcone e si accese una sigaretta. Ma poi si girò su di lui e il fumo lo espirò dentro.

«Sì, di nascosto. Quando lei era troppo impegnata negli aperitivi coi suoi colleghi illustrissimi Tecnici della prevenzione nei luoghi di lavoro. Porca puttana. Me l’hanno fatto imparare a memoria, ‘sto titolo.»

Manuel le rubò una sigaretta dal pacchetto aperto sul tavolo rotondo.

«Sì, vabbè. Anche basta, ora. Saranno pure cazzi loro se, e sottolineo che stiamo dando retta a una tua chiaroveggenza, vogliono vedersi.»

Sole socchiuse la finestra e alzò la voce circumnavigando il tavolo. Si picchiò la mano sul petto.

«Sono pure affari miei, invece. Ho tolto il moccio dal naso, a quello sveglione. Gli preparavo la merenda da portarsi alle elementari che ero già al liceo. Se ripenso a come quella se lo rigirava come un calzino, a come se lo portava dietro come un cane… Cazzo! L’hai vista stamattina? Hai sentito Stefano? Col nuovo ragazzo non fa la reginetta di Torino. Perché?»

Manuel fissò il vuoto, poi fece una risatina finta mentre spegneva la cicca sotto il rubinetto.

«Sei gelosa.»

Sole restò immobile per un istante. Poi si sventagliò la mano davanti la faccia.

«Te sei tutto scemo. Riapro la finestra, così esce ‘sta cazzata?»

Lui era diventato rosso.

«Pare ti sei scordata addirittura del cenone per parlare di Stefano e Carolina!»

«Dimmi che stai scherzando.»

Non le rispose. Lo incalzò.

«A parte il fatto che il primo a non voler parlare del cenone eri tu. Anzi, non volevi parlare proprio, come tuo solito. Finché non t’è partita ‘sta scorreggia in testa.

Sono in pensiero! Oh, gliene abbiamo presentate di amiche in tre anni, e se l’è lasciate scappare tutte!»

«Vabbè, non è che puoi forzarlo a fidanzarsi.»

«Ma almeno tre appuntamenti con ognuna poteva infilarli. Non le voleva manco conoscere. Quello nega, ma non s’è mai levato Carolina dalla testa.»

Manuel le si piazzò davanti e tamburellò le dita sullo schienale della sedia.

«O non te la sei levata tu dalla testa?»

Sole si chinò lasciando cadere i lunghi ricci neri, poi si rialzò ravviandoseli dietro le spalle.

«Non so più di che stiamo parlando. Ti pare che gli presentavo le altre se ero gelosa?»

Il cellulare di Manuel si illuminò, lo prese e iniziò a scrollare lo schermo col dito. Sole gli diede uno spintone sul petto con tutte e due le mani. Iniziò a piagnucolare.

«Pezzo di merda! Ma ti rendi conto di quello che mi hai detto? Da quanto lo pensi?»

Lui cercava di togliersela di dosso. Gli stava afferrando il maglione.

«Da adesso. Finiamola, ok?»

«Finiamola un cazzo! Bugiardo!»

Manuel combatté per bloccarle le mani.

«È vero! È che tu hai iniziato ‘st’arringa contro una che si sarà pure comportata un po’ di merda, ok, ma quanto aveva? Ventun anni? Ventidue? Ci sta! Era diventata un pallone gonfiato? Ma beata lei! Almeno si sapeva risolvere! A Stefano pare che ci vuole pure adesso una baby-sitter!»

La voce di Sole si abbassò di parecchi decibel, ma piangeva sul serio.

«Non deviare il discorso. Da quanto lo pensi? Porca merda, sono settimane che stai sempre rannuvolato, sempre su quel telefono. Si fa prima a cavarti un dente che una parola! Pensavi a questo? Parla!»

«Tu stai fuori. Poi, scusa, era un po’ che non vedevamo Stefano. Chi se l’era sognato più fino a oggi?»

«Allora dimmi che c’hai in testa!»

Lui tornò verso la camera da letto, si riprese il giaccone. Lei sempre dietro.

«Mi rispondi? Dove vai ora?»

Manuel le mostrò la chat sul cellulare.

«È l’amico tuo. Vuole che vado da lui a giocare alla PlayStation. Ha cercato me e non te. Sarai mica gelosa?»

La ragazza scosse leggermente la testa. Le lacrime non uscivano più ma le guance erano rimaste rigate.

«Ma vaffanculo.»

«Ah, s’è rifatto vivo e già ti sei calmata?»

Nemmeno mezzo secondo dopo aver finito la frase, Manuel aveva tatuate in faccia le cinque dita di Sole. Il petto gli si gonfiò e sgonfiò più volte in ampi respiri, subito dopo si avviò verso la porta senza reagire.

Sole uscì sul balcone a fumare, senza coprirsi. Osservò la fila di auto che scorreva lungo i lati della rotatoria di Piazza Carducci, e le ambulanze che andavano e tornavano dall’ospedale alla sua sinistra. I contorni di fari, stop, sirene e luci di Natale iniziarono ad apparirle sfocati. Poi rinsavì e sgranò gli occhi.

“Dopo stamattina, vuole vedere solo Manuel per rincoglionirsi coi videogiochi.”

Finì il pensiero ad alta voce.

«Domani vedrà davvero Carolina.»

23 dicembre 2023, sera

Suonarono alla porta dell’appartamento in via Millefonti 11, dove Stefano viveva in affitto. Il ragazzo aprì, lasciò entrare Manuel.

«C’hai ‘na faccia.»

«E tu? Ti sei venduto gli specchi?»

Guardò il pianerottolo e l’ascensore prima di chiudere. La voce di Manuel lo raggiunse dal divano.

«Sole non si sarebbe mai autoinvitata, tranquillo.»

Stefano fece per cercare il telecomando in salotto, poi vide che l’amico aveva già acceso tv e PlayStation, e stava passando in rassegna i giochi nelle custodie.

«Quale rifacciamo, Ste’?»

«Scegli tu. Già che hai fatto gli onori.»

«The last of us 2

Stefano annuì mentre tirava fuori dal frigo una bottiglia di Ribolla e due calici dallo scolapiatti.

«L’atmosfera natalizia che mancava.»

«Non sarà mai caciarone come Torino in questi giorni.»

«A me non pare così diversa dal solito.»

«Ti spiace se inizio io a giocare?»

«Prego. Io farò il sommelier.»

Mentre versava il vino, squadrò Manuel che sceglieva il livello di difficoltà nel menu del gioco.

«Metti difficile. Per una volta che giochi tu. Di solito fai partire me, dici che mi darai il cambio e invece rimani a guardare e a insozzarmi il divano con le patatine.»

«Stasera non te lo faccio neanche toccare il joypad, allora. Se non ti spiace, ovvio.»

«Assolutamente. Evento inatteso. Fai pure.»

Mentre gli occhi si immergevano nello scenario apocalittico sullo schermo con la protagonista Ellie pronta a far schizzare sangue sotto il controllo di Manuel, la mente di Stefano entrò nella più accogliente Belicabarbis, con le sue vetrine invitanti che lo separavano da torte e brioches, gli addobbi natalizi, le sedie e i tavoli di legno chiari, le pareti di mattoni rossi.

Non sarebbe accaduto se Manuel quella sera non avesse deciso di stravolgere i piani di una delle loro serate tipiche.

Se avesse potuto giocare lui, come sempre, non si sarebbe perso nei ricordi di cinque anni prima.

La mattina del 24 dicembre del 2018, occupato il solito tavolo all’interno della torteria ma davanti la finestra color avorio, Stefano guardava fuori in cerca d’ispirazione.

Metà pagina del suo quaderno era bianca da troppi minuti. Non funzionava. Non funzionava quasi mai guardare fuori. Ma l’unica volta in cui aveva provato a sedersi in un posto che dava sull’interno, dopo un quarto d’ora gli mancò l’aria.

Poi gli apparve o, meglio, si accorse di lei. Non si trattava dell’ispirazione, ma era altrettanto bella. Forse di più.

La ragazza, seduta ad un tavolo esterno, sembrava afflitta quanto lui. Stava china su un paio di tomi, il corpo magro e di carnagione chiara dentro un cappotto marrone; la testa dai capelli lunghi, lisci e biondi sotto un basco nero.

Stefano appuntì la matita e prese a disegnarla. Non a ritrarla, non ne era capace. Ne fece una versione a fumetti, in uno stile misto tra il manga e l’underground. Sapeva fare solo quello.

Attento ai dettagli, ne replicò perfettamente espressione, abiti e postura. Poi smise di guardarla perché gli mancava solo da aggiungere le ombre.

Ora era lei, però, in piedi dall’altra parte del vetro, a guardare lui e la stramba versione di sé stessa sul foglio.

Gli sorrise. Le labbra sottili rivelarono un’arcata dentale bianca e perfettamente allineata. E le disegnarono due fossette sulle guance che, insieme agli occhi verdi un po’ a mandorla, stavano già facendo ballare nello stomaco di Stefano la fetta di torta di mele mangiata poco prima.

Restò imbambolato e con le guance rosse mentre lei, con un dito che puntava al proprio viso, gli chiedeva “Sono io?”.

Si ridestò e annuì. Non aveva mai riprodotto l’immagine di una sconosciuta dal vero. Le gambe e la bocca iniziarono a tremargli. Allora piantò i piedi a terra, serrò le labbra e la invitò, coi gesti, a entrare e sedersi al suo tavolo. La ragazza non se lo fece ripetere.

Gli si sedette di fronte, ordinarono due tisane. Lui lottò per non farsi vincere dalla balbuzie.

Lei si tolse il basco e gli tese la mano, sempre col sorriso stampato.

«Ah, scusa. Carolina. Dovrai pure scrivere un nome sotto il disegno, no?»

Lui rimirò la sua opera, riuscì a malapena a rialzare lo sguardo.

«Stefano.»

«Me lo regali, vero?»

Sollevò le mani come se gli avesse puntato una pistola contro.

«È tuo.»

Carolina rise.

«Grazie. Ma scrivimi una dedica. Sei un fumettista o uno scrittore? O entrambe le cose?»

Lo disse mentre scrutava le parole fitte e incomprensibili sul blocco di fogli. Lui fece spazio sul tavolo alla cameriera che li servì. Il diversivo diede forza alla sua voce.

«Né l’una, né l’altra cosa. Sono un operaio e un cameriere. A intermittenza.»

Lei arricciò il naso.

«A intermittenza. Ma a luce fissa sei un fumettista e uno scrittore, te lo dico io. Solo che forse lo sanno ancora in pochi.»

Le accennò un sorriso.

«E tu…? Cosa sei?»

Gli strizzò l’occhio.

«Dimmelo tu. Mi hai ritratta in cinque minuti.»

Guardò i due volumi che fuori la tormentavano.

«Una studentessa. Ma-ma non solo, intendiamoci. Anche la mia musa, e pro-probabilmente una persona di un’importanza strategica per il pianeta che non m’immagino e la divinità di una religione che non conosco ma di cui voglio già segnarmi al catechismo.»

Carolina sghignazzò coprendosi il labbro con una mano, mentre con l’altra gli ridiede il quaderno. Si accigliò scherzosa. Ora Stefano non riusciva più a lasciare i suoi occhi.

«La mia dedica, please

«Ah, già.»

Prese la bic blu, non ci mise niente a trovare le parole. Strappò il foglio e glielo porse.

Lei lesse e si illuminò.

«È questo che sono, allora. Tanti auguri!»

Sotto il disegno le aveva scritto: “un regalo di Natale al mio regalo di compleanno”.

Stefano nascose le mani sotto il tavolo. Con le gambe era stato più facile celare il tremolio.

«Sei… un dono.»

Gli sorrise a mezza bocca, inarcando un sopracciglio.

«Un po’ da sciupafemmine, non pensi?»

Gli andò di traverso l’aria.

«Uno sciupafemmine che invece di uscire e parlarti, ti ha disegnata senza sapere se te ne saresti accorta?»

«T’avevo già visto qui.»

Lui sussultò.

«Frena. Venivi già qua? Impossibile. Avresti già diciotto chili di quei disegni.»

Stavolta Carolina rise di gusto e Stefano sentì un calore nel petto che gli parve nuovo.

«No, infatti. Ti vedevo da fuori, quando passavo per via Carlo Alberto. Stavi sempre a scrivere. Tornavo indietro dopo un’ora e non ti eri spostato di un millimetro.»

«E finché mi vedi qua vuol dire che non ho combinato un cazzo.»

«Pensavo fossi contento della mia compagnia.»

Stavolta lui la vampata se la sentì in faccia.

«Ma-ma sì, io volevo…»

«Ti sto prendendo in giro.»

Diede un sorso alla tisana, Stefano la imitò. Era ancora calda. Carolina proseguì senza più sorridere.

«Studio Tecniche della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro. Qui a Torino.»

Lui fece un cenno di approvazione con la tazza ancora sulle labbra.

«Mmh. E i primi due esami ti sono serviti per imparare a dirlo?»

La fece scoppiare di nuovo a ridere. Dagli altri tavoli si voltarono.

«Sono vicina alla laurea. Chiunque mi ha già detto che troverò lavoro facilmente. E ben pagato.»

Si adombrò.

«Ma io non so più… non so… se voglio questo.»

Carolina cerco di recuperare una parte dell’ilarità di poco prima.

«È da fenomeni accorgersene dopo tre anni, vero?»

Soppesando ogni fase del movimento, lui le sfiorò la mano ossuta. Lei si scosse ma lo lasciò fare.

«Ti capisco. Mi sento come te.»

«Ma non vuoi scrivere? O disegnare?»

«Se lo volessi davvero, credo che avrei scalpitato per cambiare le cose. Invece di relegarlo a passatempo. Ogni tanto compro corsi brevi, cerco quelli che costano meno.»

Forzò un sorriso.

«Mi sa che sono solo un cagasotto. Sudo due soldi per paura di non mangiare e poi vomito pure l’anima, perché mi fa tutto schifo. Ma nemmeno tento il salto. Resto fermo.»

Carolina gli mollò uno schiaffetto sulle nocche.

«Senti, Fermo, quanti anni compi oggi?»

«Ventitré.»

Ora gli strinse entrambe le mani muovendole su e giù come una bambina.

«Hai la mia età! Direi che possiamo prenderci un po’ di tempo per provare a capirci qualcosa, no? Finché non camminiamo curvi. O finché durano le vacanze natalizie. Che dici?»

Lui osservò un attimo la tisana che non gli andava dall’inizio, poi entrò di nuovo in quegli occhi che non gli avrebbero lasciato la mente libera per anni.

«Se le vacanze le passiamo a non capire un cazzo insieme, ci sto.»

Restarono a sorridersi senza dire niente per alcuni secondi. Il primo lungo silenzio con qualcuno, in tutta la sua vita fino a quel momento, che Stefano riuscì a sostenere senza imbarazzo.

Tornarono a vedersi già dal giorno successivo, anche a Belicabarbis. Divennero occupanti abituali del tavolo per due che era stato per uno fino alla Vigilia di Natale. Stefano non si portava nemmeno più carta e penna dietro. Anche in solitudine disegnava e scriveva sempre meno. L’unico personaggio che aveva in testa esisteva davvero e prima della fine delle Feste, era diventata la sua ragazza.

La presentò a Sole e Manuel, e spesso si trovavano tutti e quattro alla torteria.

«Carolina è la tua versione femminile e sveglia.»

Questo gli disse Sole poco tempo dopo averla conosciuta.

«Ha le tue stesse fisse, il tuo stesso umorismo discutibile. Solo che lei non sembra in coma permanente. Deve avertelo aggiunto qualche battito al cuore. Non sembri più uscito da un film di Romero, quando cammini.»

«E sarebbe il nostro, l’umorismo discutibile?»

«Però quegli amici suoi sembravano stare con noi per obbligo a cena, l’altra sera.»

«Sono solo compagni di facoltà. Gente che frequenta al momento.»

«Ho capito. Non poteva portare amici allora? Ne ha?»

Non ne aveva, non di quelli veri. Stefano ne avrebbe avuto conferma in seguito. Per un periodo tutt’altro che breve, però, si dimenticò dell’osservazione dell’amica. L’unica necessità di Stefano consisteva in stare appiccicato a Carolina e l’unica necessità di Carolina consisteva in stare appiccicata a Stefano. Lui cercava sempre meno persino Manuel e Sole.

Poi ci fu un giorno, passato qualche mese, in cui Carolina lo invitò in un altro locale. Uno di quelli che Sole definiva “snob e da fighetti figli di papà”. Voleva festeggiare con lui il suo ingresso in un’azienda di Consulenza per la prevenzione e la sicurezza nei luoghi di lavoro.

Non l’aveva mai vista così. Pareva brilla e non aveva ancora toccato il bicchiere.

«È qui che siamo venuti a cena, con tutto il team. Non vedevo l’ora di portartici!»

Stefano si guardò attorno, non c’era un solo ragazzo o ragazza vestito casual, come lui. L’età media della clientela era la loro, salvo qualche lampadato e qualche rifatta di mezza età, su di giri e con una bottiglia nel secchiello al centro del tavolo. Con le lampadine che scendevano così basse che quasi ne toccavano il tappo. Pure Carolina era in tiro.

Si schiarì la voce.

«Mi sa che l’ora l’hai vista. Sei stata qua solo ieri.»

Gli fece la linguaccia.

«Scemotto. Non è una figata, ‘sto posto? Ci puoi venire a pranzo, colazione, merenda, cena, aperitivo, apericena…»

Stefano arricciò le labbra alla parola “apericena”.

«Hai reso l’idea, sì.»

«Potresti venire qua a scrivere. Cazzo, puoi passarci le giornate quando non lavori. Poi ti raggiungo e ci alcolizziamo.»

«Lo metto nei promemoria.»

«Devi conoscere i miei colleghi! Siamo tutti ragazzi, mi trovo strabene! Mi pare di conoscerli da anni!»

Si spense e scrutò il fidanzato, perplessa.

«Che c’hai? Non sei contento per me?»

Lui tirò in avanti il collo come un tacchino.

«Sì, caspita! È che fino a ieri non parevi convinta di niente, invece oggi champagne e fuochi d’artificio. Che è successo?»

Gli occhi di Carolina, resi più grandi dal tratto di matita nera, guardarono in alto, verso le piante finte intrecciate a delle griglie bianche appese al soffitto.

«Non so spiegarti. È come se mentre studiavo non l’avessi ancora capito bene. Mi manderanno sempre in posti diversi. Girerò tutta la regione, forse andrò pure fuori. Controllerò fabbriche, cantieri. E dovranno tutti darmi retta!

Ho un buon presentimento, mettiamola così. Può bastare?»

«Certo. Voglio solo essere sicuro che ti vedrò sempre così contenta.»

Già mentre terminava la frase, Stefano era tornato a vagare con gli occhi in quel bistrot-lounge bar o quello che era. Le pareti, il bancone e gli espositori erano completamente neri, ma le luci accecavano. C’era pure un angolo per i selfie, e una fila di tette, culi e bicipiti sul punto di esplodere in vestiti strettissimi aspettavano il loro turno per immortalare quel momento irripetibile. Irripetibile fino all’apericena successivo. Prese la flûte di prosecco ma poco prima di appoggiarci le labbra la riposò sul tavolo.

Gli occhioni verdi di Carolina cercarono di riavere quelli del fidanzato ma fallirono. Allora la ragazza si alzò e andò a sedersi sulle sue gambe. Gli mise le braccia attorno al collo.

«E io vorrei vedere contento te.»

Stefano tirò un lungo respiro, le cinse la vita e strofinò il naso contro il suo.

«Lo sono. Forse ora sto per diventarlo un po’ troppo. Spero tutta questa gente non se ne accorga.»

Lei rise e lo baciò.

«Sei davvero uno scemotto. Allora sbrighiamoci, vengo a fare un’ispezione a casa tua.»

23 dicembre 2023, tarda sera

«Puttana maledetta!»

«Merry Christmas

Stefano tornò al presente grazie all’amico che combatteva contro una deforme donna infetta nel gioco. Non l’aveva mai visto così preso. Manuel fece uscire Ellie allo scoperto da un nascondiglio e si trovò contro un’orda di nemici.

Stefano si mise le mani ai capelli.

«Cazzo fai? Qua dovevi prima attirare gli infetti verso gli umani, così mentre si scannavano tra loro andavi avanti.»

«Fanculo tu e lo stealth. Mi voglio divertire.»

«Ah. Hai già l’euforia per Capodanno. Va tutto bene?»

«Sì.»

Dopo qualche istante di silenzio, salvo il casino della tv, Manuel espirò forte col naso e parlò sommesso.

«Scusaci ancora per stamattina.»

Stefano gonfiò le guance in una pernacchia.

«Figurati. Sole è sempre stata una specie di mamma. Ci sta.»

«Io non ce l’ho così tanto con Carolina. Era entusiasta, si era lasciata trascinare. Minchia, se non si può nemmeno a quell’età. E poi, i suoi nuovi amici erano davvero più ganzi di me e Sole. Mi sarei evitato anch’io.»

«Ma piantala. Altro che entusiasmo, pareva uno scambio di persona. Uno stipendio alto, due pacche sulle spalle e puff! Incertezze sparite, occhi chiusi, culo aperto. Quanto mi scese, porca troia.»

«Eravate due ragazzini. Secondo me, in futuro potreste tornare insieme.»

Un lumacone risalì la gola di Stefano.

«Scordatelo.»

«Dici? Ora non convinci neanche me, sai? Ci mettesti una vita a lasciarla.»

«Lo so. Piuttosto mi sarei fatto ammazzare male come ‘sti porcini deambulanti di The last of us. Dammi il joypad.»

«Prego.»

Cercò di resistere agli spari e alle botte che stava prendendo nel videogame per colpa di Manuel.

«Ma da tanto tempo mi sentivo lo specchio delle sue brame che le ricordava quant’era diventata figa. Ho aspettato, “magari è un periodo”, mi dicevo. Dopo un anno la parola periodo inizia a diventare lunga. Non la riconoscevo più.»

I piedi di Stefano presero a tamburellare il pavimento. Le mani e il controller gli ballavano sulle ginocchia.

«Quando gliel’ho detto, non aveva idea di che stessi parlando. Se ripenso a come piangeva e mi pregava di dirle che era uno dei miei soliti scherzi del cazzo…»

«Se stavi male, che altro potevi fare?»

Con suo stesso stupore, Stefano alzò la voce.

«Chiederle di rimettersi cappotto e cappello comprati all’OVS, di sbafarsi le torte e ciondolare la testa, forse. Ti ricordi come diceva Sole? La mia versione femminile. Era vero. Ma non potevo scopare me stesso, e quindi.»

Mentre gli parlava, Manuel faceva smorfie per come la missione nel videogame stava degenerando.

«Non ti credo. L’avresti mandata a cagare dopo i primi tre Spritz a San Salvario, fossi stato davvero così egoista.

Diciamo che avete sbagliato entrambi. Se hai detto che col ragazzo di adesso è tornata tra i mortali, si sarà accorta che non era fatta per l’Olimpo. Tempismo di merda, eh. Mi spiace per te.»

«Non l’ho detto. Me l’hanno detto.»

Stefano lasciò i tasti del joypad e si fece uccidere sullo schermo.

«Non li avevo mai visti prima.»

«Che?»

Posò il controller sul tavolo basso davanti al divano e prese il calice di vino.

«Non li avevo mai visti insieme prima di oggi. Conoscenti in comune mi avevano parlato di loro, sì, ma non li avevo mai incrociati.»

Si tolse gli occhiali e si strofinò la faccia. Manuel gli accarezzò la schiena. Poi Stefano si sentì vibrare il telefono nella tasca dei jeans.

«Potremmo parlare d’altro?»

Manuel si versò l’ultimo vino della bottiglia.

«Purché non sia di cenoni.»

Mandò giù e restò a fissare il calice vuoto. Stefano invece fissava lui, finché non si ricordò del cellulare. Era un messaggio di Sole.

– Manuel sta ancora da te? –

Chiuse la chat e guardò l’orario.

«T’ho fatto fare tardi.»

«Non lavoro domani, nemmeno Sole. Io non sono di turno al CUP, lei s’è fatta dare un giorno al negozio per cucinare l’oceano.»

«Ha chiesto un permesso la Vigilia di Natale a un rivenditore di cellulari. Un’eroina dei nostri tempi.

Allora vai. Domani le devi star dietro. Sennò poi cucina me.»

«Come fai a reggere Sole da più di vent’anni? Ah, già. Non ci vivi insieme.»

Stefano non rispose. L’amico aveva fatto decine di volte quella battuta negli ultimi mesi, ma in tutte le altre occasioni aveva riso.

Manuel si batté le mani sulle gambe e si alzò.

«Corro, corro dalla tua mamma.»

«Dille che abbiamo fatto i compiti, non che abbiamo giocato. Cia’.»

Stefano lo osservò dirigersi, strascicando i piedi, verso la porta. Chiuse gli occhi, sospirò. Avvertì una fitta al petto. Prese il telefono e rispose a Sole.

– Arriva –

Uscì dalla schermata della conversazione, poi ci rientrò e le scrisse ancora.

– Ti voglio bene –

24 dicembre 2023, mattina

Sole si alzò che Manuel dormiva ancora. Erano quasi le otto. Si mise a tagliare le teste, aprire i corpi e tirare via le interiora ai pesci comprati il giorno prima. Non riusciva a frenare le smorfie di disgusto mentre si impiastrava le mani in mezzo a quello scempio.

Quando sentì il fidanzato uscire dalla stanza da letto per vederlo poi attraversare il corridoio e chiudersi in bagno, la puzza di pesce le fece salire un conato di vomito. Stava arrivando anche il pianto. Trattenne entrambi.

Si sbrigò a raccogliere tutti gli scarti in una busta. Posò la fronte alla credenza, chiuse gli occhi. Cercò di concentrarsi sulla sequenza di cose che doveva fare, sulla roba che doveva ancora procurarsi.

Sussultò quando Manuel fece capolino dal bagno per parlarle.

«Non preparare la colazione pure per me. Vado subito al lavoro.»

Sole non guardò lui, ma l’orario sul cellulare.

«Non sei già in ritardo?»

«Appunto.»

Manuel rientrò e si richiuse dentro. Si sentì il suo telefono squillare.

Sole non avrebbe preparato da mangiare neppure per lei, il senso di nausea le aveva tolto l’appetito. Prese il sacchetto maleodorante per andare a gettarlo subito nei cassonetti giù in strada. O per sfamare qualche gatto.

Camminò lungo il corridoio, si fermò davanti la toilette quando sentì il suo ragazzo parlare a bassa voce al telefono. Tese l’orecchio verso la porta.

«Ce la faccio. Tu intanto entra, prendi posto. Non ci metto niente. Ciao.»

Sentì i suoi passi avvicinarsi allora scattò verso la cucina, con la busta ancora in mano. Le mancava il respiro.

Manuel la osservava perplesso.

«Tutto bene?»

Sole sollevò il sacchetto, su cui rifugiò lo sguardo.

«Vado a buttare via ‘sta roba. Non risalgo.»

Lui restò un attimo imbambolato. Poi fece spallucce.

«Ah, ok. Ci vediamo oggi pomeriggio.»

Lei fece sì con la testa. Deglutì i liquidi gastrici. Finalmente lo guardò.

«Sì. Allora, buon lavoro.»

Manuel non rispose. Rientrò in camera e si chiuse la porta alle spalle. Quella del bagno, però, era rimasta aperta. Sole ci passò davanti e si fermò. Il cellulare del ragazzo era sul ripiano del lavabo. Entrò con passo leggero. Fece accendere il display del telefono. Nessun banner di notifica. Conosceva il codice di sblocco. Poteva recuperare il numero della persona con cui il ragazzo doveva incontrarsi.

Si voltò verso la stanza da letto. Impedì di nuovo alle lacrime di scendere. Lo schermo intanto si era spento.

Lasciò il telefono di Manuel dove lo aveva trovato e uscì dall’appartamento.

Gettò gli scarti del pesce nell’immondizia, e invece dell’auto, prese la metro. Verso la stazione Porta Nuova.

Da lì, avrebbe raggiunto a piedi il civico 26 di via Carlo Alberto.

Sole si intrufolò nel negozio di calzature Igi&Co, in via Carlo Alberto 39, di fronte alla torteria Belicabarbis.

Sbirciò fuori attraverso la vetrina, e lo vide. Stefano era al solito posto, davanti la finestra. Con la sua fetta di torta, obbligatoriamente vegana per via della sua intolleranza al lattosio e ricoperta di panna vegetale, i suoi quadernoni rilegati ad anelli e l’astuccio. Con lui non c’era nessuno.

Sole si fece un giro per il negozio. Anzi, più di un giro. Guardava borse e scarpe fugacemente, fingeva di curiosare. Tornò ad affacciarsi al vetro. Qualcosa era cambiato.

Una bella ragazza bionda, stretta in un cappotto marrone e con la testa coperta da un basco nero, si era accomodata sulla sedia rossa di un tavolo esterno del locale. Precisamente davanti la postazione di Stefano. Teneva un libro aperto che pareva stare leggendo.

Sole quasi appiccicò il naso alla porta del negozio per vedere meglio. Notò che Carolina, di tanto in tanto, staccava gli occhi dal tomo per guardare dentro la torteria. E Stefano spesso guardava lei mentre muoveva frenetico quella che, anche se dalla distanza da cui veniva spiato non si capiva, doveva essere una matita, dal momento che il ragazzo più d’una volta aveva sfregato la mano sul foglio. Come fa chi tiene una gomma da cancellare.

Quello che però Sole riuscì perfettamente a distinguere era il sorriso del suo amico. Allora anche lei si mise a ridere. A ridere e piangere insieme.

Assistette alla scena finché poté, e finché una donna nel negozio non iniziò a impicciarsi vedendola in lacrime. Allora tornò verso Porta Nuova, scese le scale della stazione metro, si sedette su una delle sedie di fronte alle porte scorrevoli.

Ogni sei minuti passava un treno ma lei restava lì, non ne prendeva uno.

In realtà era più Carolina a fissare Stefano, che il contrario. Quando lui alzava lo sguardo dal quaderno e se ne accorgeva, rideva scuotendo la testa, poi tornava sul suo disegno.

Una volta terminato, le fece un cenno e lei entrò.

La invitò a sedersi, ma lei declinò. Quindi si alzò lui. Scrisse una dedica sotto il ritratto in stile manga che le aveva fatto. Staccò il foglio e glielo porse.

Lei ringraziò e gli disse che doveva proprio scappare.

Era arrivato il momento di congedarsi con un abbraccio e due bacetti sulle guance. Per augurarsi rispettivamente buon compleanno e buon Natale.

Carolina uscì, si allontanò camminando in fretta per via Carlo Alberto, quasi correndo. Ogni tanto si voltava indietro verso la torteria. Voleva tornare seria, ma più tentava di fermare i muscoli facciali, più la bocca le si allargava in un sorriso.

Stefano aspettò cinque minuti prima di lasciare anche lui il locale. L’appuntamento era rinnovato per la Vigilia di Natale dell’anno seguente. Forse. Perché non se lo erano detti. Non se lo dicevano mai, nemmeno si sentivano. Eppure nessuno dei due aveva cambiato numero. Solo il primo anno, poco tempo dopo che la loro storia finì, si erano accordati. Il successivo e quella mattina stessa si erano presentati puntuali e basta.

E per la terza volta, ogni passaggio, ogni gesto e ogni parola avevano seguito pedissequamente quelli degli incontri precedenti.

Fatta eccezione per un particolare.

Il 24 dicembre del 2023, dopo lo scambio di auguri, il secondo bacio Stefano glielo aveva dato sulle labbra.

Racconto liberamente ispirato al brano COLAZIONE DA GATTULLO de I MIEI MIGLIORI COMPLIMENTI